Sabato, 28/05/2016 - “Sotto falso nome” di Andrea Magno, edito da Rupe Mutevole Edizioni. Una raccolta poetica che, malgrado il titolo, si ritaglia un’identità ben definita toccando la matrice più autentica della vita. In veste di lettore, mi sono trovato al pari di un funambolo sospeso su fili di parole impalpabili e toccanti, che, pur sgombrato il campo da possibili illusioni, talvolta rimandano come a una volontaria regressione all’infanzia in cui l’abolizione dell’io-adulto è metafora per un processo di cognizione tra le parti della vita in controversia. Perché in Andrea Magno c’è tutto quello che d’un poeta potreste desiderare. Rabbia, denuncia, dolcezza, trasgressione, provocazione, malinconia, solitudine. Solitudine come similitudine dei nostri volti dispersi tra la folla, al supermercato o in un bar. Solitudine come similitudine dei nostri occhi sul mare, quello stesso mare che lambisce la poesia di questo grande autore, Andrea Magno. Di sicuro vi siete domandati: «perché mai dovrei desiderare rabbia o solitudine»? Ed io vi rispondo che è nel fondo d’ogni nostra umana debolezza che si cela il bello. Il meraviglioso. Il sublime.
1) Salve Andrea. Da dove nasce la raccolta? E perché intitolarla “Sotto falso nome”? Che tipo di impostazione hai voluto dare alla raccolta? E come definiresti il tuo rapporto col pubblico?
Ciao Pietro, grazie in anticipo per questa tue domande.
La raccolta nasce per caso, nel senso che scrivendo non pensavo ad una pubblicazione. E’ stato Enrico Nascimbeni, che poi ha anche curato la prefazione, a propormi alla casa editrice Rupe Mutevole e a loro va il più sincero e sentito ringraziamento per aver creduto nei miei scritti.
Il titolo è stato del tutto casuale, avendo però da sempre usato uno pseudonimo, può dirsi che lo stesso si sia scelto da solo.
Dici di esserti sentito un funambolo nella lettura e forse si, il leitmotiv della raccolta è il filo precario su cui si deve camminare per godere appieno di qualsiasi panorama.
Il pubblico è quello che fa assurgere a poesia uno scritto. Se le mie emozioni diventate parole, tornano ad essere emozioni per il lettore, ho scritto una poesia.
2) Il lessico è ponderato. Lo stile è limpido. Il poetare è ragionato. Quando hai scoperto la poesia? E di cosa hai bisogno per scrivere? Di quali letture si sostanzia la tua formazione poetica?
Non c’è una data precisa. A doverne scegliere una, direi gli anni del liceo iniziando con la lettura di Vincenzo Caldarelli e poi proseguendo con Montale, Salinas,
Quasimodo, Bukowski, ma anche, poiché appassionato di fantascienza, con Asimov.
Per scrivere ho solo bisogno di vivere, di curiosare, di conoscere, di dialogare e confrontarmi. Sono questi gli irrinunciabili generatori di emozioni, anche perché
non ho una formazione poetica o letteraria essendo i miei studi, liceali ed universitari, scientifici. Ritengo piuttosto, di essere fortunato per aver ricevuto il dono di riuscire a trasfondere le emozioni nelle parole, almeno così dicono.
3) In “IO (NON)SONO DIVERSO” leggiamo: “IO (NON)SONO DIVERSO” “Sono migliore di voi,/un camaleontico attore,/e vesto i panni che volete vedere,/vi assicuro che è meglio per voi,/non vi piacerebbe/vedere l’anima nuda,/che grida dolore,/quando indicate col dito/ quel povero nero,/o quelle due donne che si baciano,/o peggio,/un bambino meno fortunato del vostro,/ma adesso voglio mostrarvi/chi sono in realtà,/o meglio chi siete,/sono la vostra coscienza,/nascosta tra i recessi più bui,/sono la paura di riconoscervi/guardandovi allo specchio,/capire che anche voi siete/diversi dagli altri,/ma soprattutto per gli altri,/quindi tranquilli, siete nella norma.” L’io poetico in questi versi vuol destare la coscienza che ciascuno tende a sopprimere quando si assume un atteggiamento discriminante e discriminatorio nei confronti del diverso poiché difforme dal pensiero dominante. Perché secondo te si teme il diverso? Che cos’è la «norma»? Come si può «educare»
alla valorizzazione della diversità?
La paura del diverso ha mille facce, ma tutte hanno la stessa origine, la non conoscenza. Il mio pensiero è che il diverso e la diversità non esistono come categorie primordiali. Sono invece concetti che vengono elaborati dalla nostra mente, quando questa effettua una scelta statistica veicolata da dettami (norma) trasmessici dall’educazione genitoriale, da quella della scuola, dalla religione e dalla morale; un miscuglio che devia la mente inducendo l’individuo a pensieri che esulano dalla ragionevolezza e che credo possa esser definita “Follia”.
La valorizzazione delle diversità può essere ottenuta imparando a scegliere oltre gli insegnamenti introitati, cioè ampliando la conoscenza.
4) In “SE IO FOSSI UN KILLER (l’ammazza sogni)” leggiamo: SE IO FOSSI UN KILLER (l’ammazza sogni): “L’unica cosa che penso è,/e se mi prendono,/ergastolo senza dubbio,/ne ho ammazzati troppi di sogni,/e non potrei più farlo,/impossibile,/ah però,/potrei ammazzare i miei di sogni,/a ricordarli però,/non ricordo nemmeno se ne ho mai avuti,/ne potrei fare di nuovi,/ma come si fa con una sola ora al giorno di cielo,/a fare altri sogni per ammazzarli,/potrei rubarne qualcuno ai miei coinquilini,/così tanto per tenermi in esercizio,/no no, meglio non farmi prendere,/e continuare a fare il killer,/per fortuna,/le persone che/sognano non mancano,/e io sono qui per questo,/oh cavolo mi sono svegliato,/era tutto un sogno,/sarà meglio ammazzarlo subito,/prima che me ne penta.” Attraverso un processo di astrazione, l’io poetico sintetizza nella forma di un’ipotesi la caduta dei propri sogni se non addirittura la loro totale mancanza nell’arco della propria vita. Perché tanta disillusione? Perché «ammazzare i sogni»? Cosa intendi con «l’ergastolo» che potrebbe toccarti di pagare se ti acciuffassero nelle irreali vesti di «ammazza sogni»?
I sogni, sono l’irrinunciabile “other side” della nostra vita, spesso lasciati nel cassetto. Quando i desideri vengono dichiarati, dalla nostra mente, impossibili da realizzare, è esattamente questo il momento in cui i sogni vengono “ammazzati”.
E’ questa la disillusione prepotente che ci accompagna nello scorrere degli anni.
Se poi gli stessi sono “ammazzati” da altri, quale pena potremmo infliggere loro se non l’ergastolo eterno e l’esilio dal mondo dei sogni?.
5) Quei tipi erano sicuramente drogati,/unica spiegazione, per volare così./Erano fatti di brutto,/plagiati da un “dio” creato dagli uomini,/a loro immagine e somiglianza,/una mente spappolata da un odio/di cui non conoscevano la ragione,/che bevevano ogni mattina mescolato al caffè,/uomini comuni,/automi plasmati da vili,/nascosti dietro il paravento/di un credo allucinogeno(“TUTTA LA NOTTE JACK PENSÒ:‘LA RELIGIONE E’ L’OPPIO DEI POPOLI”). Si dispiega in questi versi una lucida riflessione sulla religione come oppio dei popoli. Chi è Jack? Quanto pensi attuali questi versi? E perché secondo te l’uomo ha bisogno di creare un dio «a propria immagine e somiglianza»? In che modo il bisogno di fede può annientare la ragione?
Jack siamo noi, ognuno di noi è Jack.
Credo che tutti, almeno una volta, ci siamo chiesti cosa sia la religione, ed ovviamente ciascuno ha una diversa risposta.
Non tutti i credo hanno un dio “a propria immagine e somiglianza” ma tutti hanno in comune la necessità di un dio tangibile e che abbia gli stessi comportamenti degli uomini, quindi che sia anche crudele e vendicativo.
Il bisogno di certezze rende la mente plasmabile da chiunque abbia la capacità di approfittare di questa falla dell’esistenza umana, cosicchè diventiamo facilmente dei fantocci nel nome di quel dio ”possibile” e che, per voce di altri, tutto promette e nulla mantiene.
Si, è attuale il mio pensiero, soprattutto alla luce degli accadimenti che si susseguono quasi quotidianamente celando, dietro la facciata della religione. la loro vera motivazione: il potere. E’ così da sempre.
6) “Non voglio possederti,/perché se ti possedessi potrei perderti,/e questo sarebbe insopportabile,/sapere che ci sei,/abbracciare la tua anima senza imprigionarla,/
perché dalle prigioni si vuole fuggire,/ed invece io voglio/che tu non vada per tornare,/che le tue assenze siano solo distanze,/insieme siamo, solo perché lo vogliamo,/obbligati solo dal desiderio di noi,/dallo sceglierci ogni giorno./Non voglio possederti,/perché se ti possedessi potrei perderti.”
(“IL NON POSSESSO DELL’ALTRO”). Questi versi, tanto delicati, illustrano quanto sia difficile preservare una relazione umana dall’esigenza di dominarla. L’io poetico sembra conoscere bene le costrizioni che impone una prigione. Come intendi la libertà? E perché il possesso implica la perdita?
E’ l’esperienza che ce lo insegna: il possesso implica sempre una possibile perdita. Nelle relazioni quando veniamo feriti e traditi diciamo: “mi hai perso”, confermando implicitamente l’essere stati o l’aver posseduto.
La libertà è il vivere la relazione intessuta di comunione fiduciosa e quindi priva di restrizioni e costrizioni Nel momento in cui uno dei due le avverte, il connubio sta venendo meno.
7) In “UNA STANZA TUTTA PER ME” si legge: “[…] rinchiuso nella mia mente schizofrenica,/tra voli pindarici in cieli oscurati da tempeste,/sommerso da un mare dove annego,/ci vivo da sempre in compagnia di due amici,/Jack e Jane,/loro non mi danno mai torto,/suggeritori sopraffini/arraffano parole e pensieri/a destra e a manca,/e io scrivo,/scrivo di loro, di me,/del mondo che vorrei,/di distanze mai colmate,/di mani mai tese,/di una pioggia che mai finirà./Me ne sto/“ad occhi chiusi”,/non voglio vedere il vostro mondo”. Da che cosa deriva la necessità di restare chiusi nella propria mente che viene persino definita «schizofrenica»? Che cosa rappresentano Jack e Jane? E perché non ti danno mai torto? Quanto è utile la solitudine nella misura in cui comporta il totale distacco dal mondo? Si tratta di una soluzione possibile? Quali sono i limiti del lathe biosas?
Ci sono momenti della vita in cui abbiamo bisogno di chiuderci, di isolarci completamente, per mettere a fuoco la nostra esistenza e prendere decisioni importanti. In quegli attimi in cui tracciamo una linea, lo spartiacque da tra due opzioni, e Jack e Jane (noi stessi) ci spingono a decidere in un senso piuttosto che in altro, convincendoci che stiamo scegliendo il giusto, nella realtà c’è sempre qualcuno che ci si contrappone.
È un comportamento “schizofrenico” isolarsi con Jack e Jane, ma possibile e talvolta utile, sempre che sia per un tempo limitato. Il “vivere nascosto” di Epicuro che tu citi, ci limita fortemente quando si protrae poiché la mancanza di interazione con gli altri alla lunga, diventa una “non vita”, con tutte le mancanze che cito nella poesia.
8) “Non so parlare di altro,/parlo di te, a volte di me,/sussurro parole che tu senti da lontano,/a volte non arrivano, altre, arrivano male,/altre volte il vento mi aiuta e le spinge da te,/e che **** sto vento,/mai che spirasse nel momento giusto,/e penso sia meglio star zitto,/oppure no, meglio parlare, o forse gridare,/si mescolano le parole quando soffia lo scirocco,/si impastano, si aggrovigliano,/diventano eco e non si capiscono,/appiccicate tra di loro in frasi senza senso,/ed è una gran fatica rimetterle insieme,/come quando rimescoli il mazzo di carte,/mai che ti venisse la coppia giusta,/e devi sempre passare, aspettare,/seduto a guardare,/con la sigaretta in mano che ti brucia le dita,/ma nemmeno la senti,/hai ben altro dolore da sentire,/che percorre corridoi bui,/apre tutte le porte per spegnere le luci,/senti quei passi pesanti,/che lasciano orme profonde,/rimbombare come l’o-daiko giapponese/percosso da un musicista folle,/che continua a percuotere/anche quando dici basta.” (“ DA ANDREA PER ANDREA). Chiudiamo l’intervista passando in rassegna questa tua ultima lirica. L’io si frammenta in parti che tentano tra loro un dialogo. Perché tra tutti questi frammenti non c’è comunicabilità? Che cosa rende impossibile un’unificazione? Esiste la possibilità che le tante parti di te siano riunite? E in quel caso, quali sarebbero, secondo te, le conseguenze?
Devo ammetterlo, la tua chiave di lettura mi ha piacevolmente sorpreso (non ti dico la mia). In fondo siamo un puzzle, passiamo la vita a cercare di mettere insieme i pezzi, a volte ci riusciamo e intravediamo una via da seguire, altre volte perdiamo pezzi per strada, alcune rare volte riusciamo a mettere insieme tutti i pezzi. Credo sia proprio in questi momenti che la consapevolezza di una vita piena ci avvolga e non ci faccia dire più “basta”, perché con quel tamburo puoi entrare in risonanza, ed anche se è un ballo che non conoscevi, lo balli.
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