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ANDREA MAGNO "SOTTO FALSO NOME"- Rupe Mutevole Edizioni

ANDREA MAGNO "SOTTO FALSO NOME"- Rupe Mutevole Edizioni

Recensione a cura di Pietro Romano della raccolta di poesie di Andrea Magno edita da Rupe Mutevole Edizioni

Sabato, 28/05/2016 - Gesti come sospesi. Forme sfumate. Nel segno di una verità ignota. “Sotto falso nome” di Andrea Magno è una raccolta di testi in cui la poesia esplicita la ricerca di una lacerazione interna nel linguaggio lirico, trasponendo un fondo linguistico di tipo ermetico in una rappresentazione espressionistica e violenta del Sé. L’artificio del titolo mi sembra legato alle suggestioni di una maschera che, con scatti taglienti, sfumature e allusioni, in realtà svela tanto dell’identità dell’autore. La maschera fa trasparire lo sguardo di uno spettatore inerme rispetto alle cose. Mi si profila il volto di un’opera dal carattere meditativo, miscuglio magico di sensazioni diverse e lontane. Altrove noto a tal proposito: « “Sotto falso nome” di Andrea Magno, edito da Rupe Mutevole Edizioni. Una raccolta poetica che, malgrado il titolo, si ritaglia un’identità ben definita toccando la matrice più autentica della vita. In veste di lettore, mi sono trovato al pari di un funambolo sospeso su fili di parole impalpabili e toccanti, che, pur sgombrato il campo da possibili illusioni, talvolta rimandano come a una volontaria regressione all’infanzia in cui l’abolizione dell’io-adulto è metafora per un processo di cognizione tra le parti della vita in controversia. Perché in Andrea Magno c’è tutto quello che d’un poeta potreste desiderare. Rabbia, denuncia, dolcezza, trasgressione, provocazione, malinconia, solitudine. Solitudine come similitudine dei nostri volti dispersi tra la folla, al supermercato o in un bar. Solitudine come similitudine dei nostri occhi sul mare, quello stesso mare che lambisce la poesia di questo grande autore, Andrea Magno.» C’è insomma il disperato appello alla contraddizione. La contraddizione è il segno di una verità ignota a un’identità che ha dentro infinite altre identità. Infiniti altri frammenti. In cui potrebbero esserci finiti anche tratti dei nostri volti, chissà. Non trovo Magno autoreferenziale. C’è un pubblico al quale egli desidera rivolgersi. Esaminiamo insieme alcuni versi dell’ opera.

In IO (NON) SONO DIVERSO a pag. 11 leggiamo: “Sono migliore di voi,/un camaleontico attore,/e vesto i panni che volete vedere,/vi assicuro che è meglio per voi,/non vi piacerebbe/vedere l’anima nuda,/che grida dolore,/quando indicate col dito/quel povero nero,/o quelle due donne che si baciano,/o peggio,/un bambino meno fortunato del vostro,/ma adesso voglio mostrarvi/chi sono in realtà,/o meglio chi siete,/sono la vostra coscienza,/nascosta tra i recessi più bui,/sono la paura di riconoscervi/guardandovi allo specchio,/capire che /anche voi siete/diversi dagli altri,/ma soprattutto per gli altri,/quindi tranquilli, siete nella norma.” La preterizione, ovvero la figura retorica per cui si dice esplicitamente quel che si finge di voler nascondere, è l’anima del componimento. Io pensante e io pensato coincidono nella struttura in cui il testo è stato immaginato. Il poeta prende la voce delle coscienze che ciascuno sotterra quando agisce per ferire l’altro. Quando la coscienza emerge, emerge spietata. Il testo ha una straordinaria funzione demistificante oltre che alto contenuto letterario: chi siamo ai nostri occhi quando la verità delle nostre azioni vengono a galla? La voce di Magno si schiera a difesa del «diverso» che poi diverso non è poiché la diversità è «nella norma». Chi discrimina l’altro da sé compie un atto sacrilego anche verso se stesso disprezzando la propria diversità.

CHIEDILO AL CIELO a pag. 16 è un testo dolcemente nostalgico, dalla voce narrante, in cui s’infittiscono i dati espressivi. Leggiamo: “Rimase, /come l’ultima foglia sull’albero, /aspettando l’autunno,/ in un giorno qualunque di una vita qualunque,/ debitore di se e di ma,/ una rincorsa tra rimorsi e rimpianti,/ anelli di una stessa catena mai interrotta,/ sulla sponda del solito fiume, /che scorre comunque, /portando via terra da sotto le radici, /ma resisteva, /attaccato con tutta la forza,/ ci credeva, /e credeva in lei, /che gli aveva insegnato/ qualcosa che poteva ripetere, /amare e resistere /in quel giorno qualunque di una vita qualunque, /con lei,/ aspettando un autunno, /che non sarebbe mai arrivato.” Tanti i collegamenti intertestuali, da Mimnermo, passando per Leopardi, a Ungaretti e Montale. Voglio sottolineare però l’unicità di questo testo. C’è «serena inquietudine» che istanzia poesia in cui il poeta si sprofonda come nel balenare di segni segreti e sogni impossibili. L’ultima foglia sull’albero si è ingiallita nell’attesa che nutre rimorsi, dubbi, rimproveri, rimpianti, tutti “anelli di una stessa catena mai interrotta”. Gli anelli di una stessa catena mai interrotta di lacrime sono la sorgente di un fiume che smuove le radici da sotto i piedi. Nonostante ciò, la lezione di lei, “che gli aveva insegnato qualcosa che poteva ripetere, amare e resistere,” si trasforma nell’attimo che eterna una vita destinata a non essere travolta dall’autunno delle colpe e dei rimpianti.

Balenare di illuminazioni improvvise è il componimento intitolato SE IO FOSSI UN KILLER (l’ammazzasogni) a pag. 24. Un lampo di genio. Si legge: “L’unica cosa che penso è,/e se mi prendono,/ergastolo senza dubbio,/ne ho ammazzati troppi di sogni,/e non potrei più farlo,/impossibile,/ah però,/potrei ammazzare i miei di sogni,/a ricordarli però,/non ricordo nemmeno se ne ho mai avuti,/ne potrei fare di nuovi,/ma come si fa con una sola ora al giorno di cielo,/a fare altri sogni per ammazzarli,/potrei rubarne qualcuno ai miei coinquilini,/così tanto per tenermi in esercizio,/no no, meglio non farmi prendere,/e continuare a fare il killer,/per fortuna,/le persone che sognano non mancano,/e io sono qui per questo,/oh cavolo mi sono svegliato,/era tutto un sogno,/sarà meglio ammazzarlo subito,/prima che me ne penta.” Ironia. Il poeta depreca l’ironia della propria sorte di ammazzasogni. Lamenta il disincanto e la disillusione. I sogni, troppe volte frustrati al contatto con la realtà, hanno il pallore della luna che s’affaccia a metà cielo. D’una luna che ricorda le amarezze di una vita assetata di desiderio e nostalgie. E tuttavia ci si chiede quali sogni. Quale capacità di sognare. Magno non ricorda d’aver avuto mai sogni, e per ciò stesso non sarebbe in grado di generarne altri. La malinconia nostalgica è la nota dolente che permea di sé l’animo di un poeta disabituato a sognare da tempo e abituato a infrangere i sogni altrui. La verità gli costa cara: è l’alto prezzo intellettuale che Magno deve pagare a costo di isolarsi da quelli le cui vite sono ancora capaci di librarsi in alto. A tal proposito va letto il componimento UNA STANZA TUTTA PER ME a pag.40: “[…] rinchiuso nella mia mente schizofrenica,/tra voli pindarici in cieli oscurati da tempeste,/sommerso da un mare dove annego,/ci vivo da sempre in compagnia di due amici,/Jack e Jane,/loro non mi danno mai torto,/suggeritori sopraffini/arraffano parole e pensieri/a destra e a manca,/e io scrivo,/scrivo di loro, di me,/del mondo che vorrei,/di distanze mai colmate,/di mani mai tese,/di una pioggia che mai finirà./Me ne sto/“ad occhi chiusi”,/non voglio vedere il vostro mondo”. Il bisogno di regredire a un’identità primigenia, formata dai soli prolungamenti delle proprie forze immaginative, si concilia col bisogno reale di distaccarsi dal mondo reale che devia dalla ricerca della felicità e disillude soltanto. Magno è una perenne contraddizione. Sogna e non sogna, freme di gioia e muore di nostalgia, canta il reale e produce l’astratto. Solo in se stesso, medita sul mondo che vorrebbe ma non è. Ad occhi chiusi, senza voler sapere nulla dell’esterno. Ciononostante, lui rimane minacciato da tutto quel che rifiuta, anche se nascosto nei meandri della propria sofferenza . C’è inaccettabilità del male, del dolore. C’è ripulsa verso tutto quel che promana dall’oscurità della condizione umana. C’è l’espiazione di una condanna perpetua alla contraddizione. Alla necessaria volontà di contraddirsi, talvolta piacevolmente o per pura schietta ironia. Ne IL NON POSSESSO DELL’ALTRO a pag.38, la riflessione si fa più interessante: Non voglio possederti,/perché se ti possedessi potrei perderti,/e questo sarebbe insopportabile,/sapere che ci sei,/abbracciare la tua anima senza imprigionarla,/perché dalle prigioni si vuole fuggire,/ed invece io voglio/che tu non vada per tornare,/che le tue assenze siano solo distanze,/insieme siamo, solo perché lo vogliamo,/obbligati solo dal desiderio di noi,/dallo sceglierci ogni giorno./Non voglio possederti,/perché se ti possedessi potrei perderti.” Questi versi, tanto delicati, illustrano quanto sia difficile preservare una relazione umana dall’esigenza di dominarla. L’io poetico sembra conoscere bene le costrizioni che impone una prigione. Di fatto in CO-STRETTO a pag.37 torna parte dell’immaginario poetico che ha caratterizzato la precedente CHIEDILO AL CIELO. Vi si legge: “Non co-stringerti, /non co-stringere, /non farti co-stringere, /gli ripetevo sempre, /non fece mai tesoro di quelle parole, /ed eccolo, /a rincorrere vita /che scorre lungo il fiume /che non lo porterà mai al mare, /rinchiuso nel suo guscio,/ a proteggere quello che non ha e mai avrà,/ saltimbanco circense alla deriva/sulla strada del tramonto.” Ancora un fiume di rimproveri e rimpianti che apre vecchie ferite aperte. La tensione nostalgica e a tratti narcisistica verso il proprio passato è il vero suggello dell’identità da poeta di Andrea Magno. Giochi di parole per segnalare amaramente come essere prigionieri di se stessi significhi essere il ramo di un fiume destinato a non sfociare da nessuna parte, monco di un tratto di vita che non vivrà mai.

“Non so parlare di altro,/parlo di te, a volte di me,/sussurro parole che tu senti da lontano,/a volte non arrivano, altre, arrivano male,/altre volte il vento mi aiuta e le spinge da te,/e che cazzo sto vento,/mai che spirasse nel momento giusto,/e penso sia meglio star zitto,/oppure no, meglio parlare, o forse gridare,/si mescolano le parole quando soffia lo scirocco,/si impastano, si aggrovigliano,/diventano eco e non si capiscono,/appiccicate tra di loro in frasi senza senso,/ed è una gran fatica rimetterle insieme,/come quando rimescoli il mazzo di carte,/mai che ti venisse la coppia giusta,/e devi sempre passare, aspettare,/seduto a guardare,/con la sigaretta in mano che ti brucia le dita,/ma nemmeno la senti,/hai ben altro dolore da sentire,/che percorre corridoi bui,/apre tutte le porte per spegnere le luci,/senti quei passi pesanti,/che lasciano orme profonde,/rimbombare come l’o-daiko giapponese/percosso da un musicista folle,/che continua a percuotere/anche quando dici basta.” (“ DA ANDREA PER ANDREA a pag. 100). La poesia come monologo interiore. Il dissidio che si apre e riapre senza mai ricomporsi. L’antinomia di un poeta che esprime contrarietà rispetto al corso della propria storia umana che si svolge sempre uguale, monotona, sulla punta di una sigaretta che si appresta a morire. La difficoltà di comunicare a se stessi il contenuto stesso dei propri tormenti. La chiusura in una dimensione claustrofobica come riparo dal mondo e fonte di rassegnazione. Il pessimismo di Magno. Forse questa l’idea che avete dell’autore. Io ne ho un’altra. Magno non vive al riparo di una maschera. La maschera è il tratto visibile di un’anima che vuole farsi decifrare in un movimento vitale che s’impone nel caos e nella contraddizione. Magno sfata il mito della maschera come elemento che mistifica. In “Sotto falso nome” la sua anima si denuda delle mentite spoglie del quotidiano per farsi intermediaria tra la dimensione del concreto e dell’astratto, del visibile e non visibile, del vero e non vero. Mi congedo da voi citandovi i versi de IL BURATTINAIO PAZZO E LE ACROBAZIE DEL CUORE a pag.98: “Ogni mattina,/appena sveglio cerco di ricordare/l’ultimo mio pensiero della sera prima,/ieri sera eri tu, come /sempre del resto,/ogni volta nascondo il dolore/in una conchiglia e rinasco con te,/non ti dirò mai che mi manchi,/perché so che ci sei,/mi dici cosi quando ti guardo negli occhi,/ma a volte non basta esserci,/mi sa che /mi sto rammollendo,/anzi direi di più,/proprio rincoglionito,/porto scompiglio al mondo e a te,/come un bambino/nella sua stanza piena di giocattoli,/sconvolgo pensieri e parole,/affamato di te,/del tuo sentire,/del volermi tenere fuori dalla stanza dei/giocattoli,/con guardiani impettiti che mi guardano di/traverso,/e allora /chiudo la porta e aspetto,/metto il cuore sulla corda tesa,/come un burattino senza fili,/ben attento a restare in equilibrio,/cadere fa male,/e non ho più tante conchiglie,/per chiuderci il dolore dentro.” C’è sempre il rimando alla dimensione del ricordo. La persona ricordata è tutto fuorché presenza. La persona ricordata è assenza che si fa nostalgia indelebile negli occhi del poeta che la celebra. Imbarazzato e goffo come un bambino, il poeta adulto non aprirà mai il suo cuore, mai confesserà di avere nostalgia di lei, poiché lei è presente seppur nell’assenza continua tra la vita che va. Nel contempo, tuttavia, le riconosce che a volte non basta esserci. La lontananza lo sfianca, ha bisogno di rivedersi in lei ch’è attesa e rimpianto, affamato del suo sentire. Prevale dunque l’innocenza infantile di un bimbo che si ostina ad attendere la mamma. Quello stesso bimbo che si mette fuori dalla stanza dei giocattoli e chiude la porta in attesa della madre a cui disobbedire. Quello stesso bimbo che in fondo dorme nella poesia di Andrea, Andrea Magno a cui non resta altro che rinchiudere il proprio dolore nel cuore di una conchiglia. Ma le conchiglie sono finite. E allora che fare, Andrea? Continua a deliziarci con la tua poesia, non fermarti.





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