Cultura/ Letteratura russa - L'esperienza intellettuale ed esistenziale di Olga Frejdenberg, coetanea di Marina Cvetaeva
Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2005
Ci sono due donne, nella letteratura russa, che, pur non essendosi mai incontrate, presentano alcuni punti in comune ed uno stesso atteggiamento esistenziale, che si scontra con la dura realtà della Storia: "avevo sempre teso all'assoluto, fin dall'infanzia: nell'amore, nella vita, nel mio rapporto con Dio, nel desiderio di autenticità. Il dramma era che l'assedio di Leningrado aveva distrutto in me tutto ciò", scrive Olga Fréjdenberg il 28 marzo 1947 nel suo diario. E Marina Cvetaeva: "…scrivere un autentico libro sulla fame: poeta e donna, sola, sola, sola, - come una quercia – come un lupo – come Dio –in mezzo alle pestilenze d'ogni sorta nella Mosca del '19. Io lo scriverei – se non fosse per gli svolazzi del romantico che è in me, per la mia miopia, per tutte le mie caratteristiche che talvolta mi impediscono di vedere le cose cosi come sono" (M. Cvetaeva, Indizi terrestri, Guanda, 1980, p. 136).
Marina Cvetaeva e Olga Fréjdenberg, entrambe nate nei primi anni Novanta del Diciannovesimo secolo, entrambe perseguitate dal regime sovietico stalinista, ed entrambe conosciute a livello internazionale più per la loro corrispondenza con il noto poeta Borìs Pasternàk, che per la loro opera. Ma mentre buona parte dell'opera poetica di Cvetaeva è stata pubblicata in italiano, di Fréjdenberg vi è soltanto un Epistolario con Pasternak, pubblicato nel 1987 sulla base dell'edizione inglese di Elliott Mossman. Nonostante nella copertina dell'edizione di Garzanti (Borìs Pasternàk, Le Barriere dell'anima. Corrispondenza con Olga Frejdenberg) Olga risulti solo come destinataria, il volume (471 pagine) contiene, oltre ad alcune lettere, ampli brani tratti da un diario retrospettivo, riguardante il periodo dell'epistolario (1910-1954), in cui Olga, probabilmente consapevole che solo la notorietà del cugino l'avrebbe salvata dall'oblio più totale, delinea il suo percorso esistenziale e le sue idee, avviandoci allo spessore e originalità del suo pensiero e della sua opera.
Studiosa di letteratura e docente di filologia classica ("la cattedra che ho creato, la prima in Unione sovietica, che ho diretto per 16 anni, la grande impresa della mia vita") Olga Frejdenberg è autrice di numerosi saggi (ricordiamo: Tre soggetti e La semantica del soggetto nell'Odissea del 1929; La poetica del soggetto e del genere nella letteratura classica del 1935; Saffo del 1949) nei quali viene esposta la sua originale teoria riguardante la centralità della lirica greca nella storia del pensiero occidentale e l'importanza delle similitudini omeriche nel passaggio da un pensiero concreto, (in cui la coscienza è mitologica-creativa, il soggetto determinato e non libero, il tempo spaziale e statico, lo spazio piatto e chiuso), a un pensiero astratto, segnato dalla scoperta della metafora e del realismo, il cui più alto compimento si trova nella "tragedia e nel Convito di Platone, che è l' alfa e l' omega della classicità" (27.5.1953, lettera a B. P. p. 414).
Poco prima di morire, nel 1953, annotava: "Ho davanti a me un compito grandioso: voglio trarre le conseguenze generali da tutta la mia esperienza intellettuale in un libro che si intitolerà Immagine e Concetto. Voglio dimostrare che il concetto è un'immagine trasformata, che la vita si rinnova dal suo interno. La cosa che mi sta più a cuore è dimostrare che fra concetto e immagine non v'è frattura e che la poesia si crea con i concetti. La Grecia parla con me e a me; io capisco la sua lingua, una lingua che mai e in nessun caso diviene concettuale. E la poesia fa la sua comparsa appunto in Grecia" (p. 412).
Persuasa che "la letteratura può costituire un materiale per la teoria della conoscenza, alla pari con le scienze naturali o quelle esatte" (dal diario, p. 165), Olga ha inteso delineare la sua filosofia della vita attraverso l'interpretazione letteraria. Dal suo diario leggiamo: "Definire che cosa fosse la prosa divenne il mio compito fondamentale. […] Contrariamente all'opinione corrente non ammettevo che nell'antichità esistessero forme indipendenti, come il racconto e la novella (logos). All'inizio c'era una grande e complessa prosa con costruzione paratattica. Vedevo chiaramente il pensiero antico svilupparsi dalla complessità alla semplicità, non all'inverso" (p. 339).
Il passaggio dall'immaginario-mitologico al realismo, dal "soggetto predeterminato" al "soggetto libero", se da una parte ha permesso all'essere umano di separarsi dal determinismo e di divenire protagonista della propria esistenza, dall'altra ha gradualmente allontanato il soggetto dalla sua "origine", facendolo sprofondare nel concettualismo, in una descrizione della realtà solo logocentrica e privata della sua "anima", ancora presente invece nella lirica greca "sorta contemporaneamente alla formazione di una società articolata", in cui questa doppia presenza di concetto e anima, di immagine e realtà, permette di cogliere l'essere nella sua unità. Da qui l'universalità della lirica greca, e in particolare della poesia di Saffo: "Non credevo nell'immagine di Saffo presentata dall'opinione filistea corrente. […] Le deviazioni sessuali non potevano trovare espressione realistica nella lirica classica, che attingeva i propri temi dall'interiorità, non dall'esteriorità. Nelle odi di Saffo il ruolo maschile è presente, ma è espresso in forme tipicamente matriarcali, il che ha impedito agli studiosi modernisti di coglierlo. I canti di Saffo non possono essere datati con precisione. Una cosa però si può dire: Saffo, alla pari di Omero, appartiene all'arte popolare. La frattura avvenuta nella coscienza sociale è la causa diretta della rottura dei generi. Il mutamento avvenuto sul piano sociale, dove non sono più gli dei, né la natura, a svolgere il ruolo principale, bensì l'uomo e la società, ha creato la lirica. La lirica di Saffo si colloca a metà strada fra il pensiero per immagini e quello concettuale. Il quadro mitico del mondo è stato soppiantato da quello realistico-sociale" (dal diario, p. 391). Nel percorso letterario dell'antica Grecia Olga individuava il "trasferimento del centro di gravità dalla religione e dagli dèi all'uomo" (p. 297).
Consapevole che "…i potenti potevano soltanto edificare castelli di carta che non avrebbero resistito alla prova del tempo. Per quanto grande fosse il loro potere, non potevano modificare il corso della storia", l'opera di Frejdenberg risulta contrassegnata da una parte da una "fede incrollabile nella scienza" e nella "semantica della storia", e dall'altra dall'ansia della ricerca di verità più profonde di quelle dominanti, una ricerca del "significato del significato". Inoltre è, come scriveva Pasternak: "un'opera creativa che presenta un punto di vista totalmente personale e aggiunge qualcosa di tangibilmente nuovo al repertorio di conoscenze comuni." (1.10.1936, p. 234).
Olga Frejdenberg, Boris Pasternak, Marina Cvetaeva sono tutte personalità di grande ricchezza intellettuale e spirituale, che si sono scontrate con un'epoca storica che non assomigliava loro. Scrive Olga nel dicembre del 1924: "Sono stanca dei 'vogliamoci bene', delle verità che assomigliano a sciarade e che ciascuno intende a modo suo, dei crani suddivisi in compartimenti, e della 'solidarietà' alla Tjutčev, che viene elargita come una grazia. Il conflitto si è rivelato più complesso di quanto non suggerisse il carattere domestico della scena: si trattava non solo di uno scontro tra due diversi modi di intendere il mondo, ma, ben peggio, di uno scontro sia con questo campo, che sulla sponda opposta. […] La mia tragedia, inoltre, consiste nel fatto che, mentre il mio pensiero scientifico ha un carattere rivoluzionario, ho una natura mansueta come quella di un agnello" (p. 138).
Ansia di ricerca, di autentica creatività, di vita coerentemente vissuta ("con un profondo senso della mia dignità e della mia integrità morale", p. 236) sono alcuni dei caratteri che contraddistinguono Olga Frejdenberg e che la accomunano alla sua coetanea, Marina Cvetaeva, morta suicida il 31 agosto del 1940, dopo che, rientrata in Russia piena di speranze da un esilio di quasi venti anni, si ritrovava mezza famiglia spedita in Siberia sotto l'inaspettata accusa di anticomunismo, e se stessa depressa e incapace di perseguire l'intento di tutta la sua vita: cercare l'unità di vita e poesia, di anima e realtà. Anche Olga perde il fratello in un campo di concentramento in Siberia, ma sceglie di vivere, nonostante la realtà non le assomigliasse: "nella non-vita in cui io vivo non esistono altro che le parole, ma lì le parole sono noci piene" (p. 143).
Ad accomunare queste due figure femminili, più che la nazionalità e l'età, mi sembra essere un percorso esistenziale che non ammette vuotezza spirituale, e che compie la sua ricerca tutta nella visceralità dell'esistenza.
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