Martedi, 25/09/2018 - Fin dove si è disposti a spingersi per amore dei propri figli? Per difenderli dal male e dalla crudeltà saremmo capaci di trasformarci in giustizieri? A queste domande sembra rispondere il film “Mon garçon” un potente thriller familiare presentato in anteprima all’ultima Festa di Roma e girato in soli sei giorni da Christian Carion, sceneggiatore e filmaker francese noto per pellicole storiche e spy-story ('Une hirondelle a fait le printemps', 'Joyeux Noël', 'L'affaire Farewell'). La pellicola, che costruisce nella prima parte una narrazione da thriller ‘tradizionale’, prepara una più complessa ed in parte imprevedibile seconda parte con ritmo serrato.
La trama è apparentemente semplice e ‘déja vu’: un bambino di sette anni scompare nella notte, insieme al suo sacco a pelo, mentre partecipa ad un campo tendato nelle vacanze invernali di un paesino innevato sulle Alpi francesi. Fuga, rapimento, altro: la polizia brancola nel buio (come si conviene a tante storie analoghe). La madre Marie ( Mélanie Laurent), disperata, convoca l’ex-marito, Julien (Guillaume Canet), un geologo sempre in giro per il mondo, che ha privilegiato il suo lavoro alla famiglia fino alla recente separazione. Appare evidente da subito che esiste ancora un legame nella ex-coppia, nonostante il fatto che lei abbia un nuovo fidanzato, incosciente, insensibile e poco interessato alla scomparsa di Mathys, il bambino, ma proiettato invece al futuro proprio e di Marie, tanto da attirare rabbia e percosse da parte di Julien che lo sospetta del rapimento del figlio. Dopo aver subito un interrogatorio da parte della polizia locale ed aver scoperto nuovi indizi, Julien inizierà un’indagine privata che lo trasformerà in un vero e proprio ‘giustiziere della notte’, intorno ad una pista che rappresenta il ‘boogie man’, l’incubo di tutti i genitori con figli piccoli: un traffico di bambini, rapiti e nascosti in un albergo e poi smistati e venduti con finalità di prostituzione.
Piuttosto serrato come thriller, il film riesce nell’insieme a mantenere vivo il ritmo della narrazione e la coerenza nel racconto. E non è poco, considerando che il regista ha chiesto al suo fidato protagonista, Guillaume Canet (già con lui in altri film) di girare a copione nascosto, per dare maggior veridicità alle scene tanto che l’attore, presentando il film al Festival d’Angoulême, ha detto di aver ‘vissuto più che recitato’ il film, che si regge di fatto quasi completamente sulla sua prova attoriale, oltre che sulla complicità di uno scenario naturale capace di ben accompagnare l’angoscia dei genitori nella ricerca del figlio. Il finale liberatorio e terribile, lascia col fiato sospeso fino all’ultimo minuto per le sorti dei bambini rapiti.
“Il film è il viaggio di un uomo che è sopraffatto dalla colpa dovuta alla sua assenza - colpa che lo fa impazzire - e finisce con l’agire in maniera irrazionale, vittima della paranoia: è molto più spaventoso non sapere esattamente perché tuo figlio è stato rapito che saperlo. Secondo alcuni c’era di mezzo il traffico di esseri umani, per altri no. Non importa. Un mio amico mi ha detto: ‘è soprattutto la storia di un uomo che diventa padre’, non ci avevo pensato ma è esattamente così.”
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