film / Qualcuno da amare - Nelle sale il film ‘giapponese’ del regista iraniano Kiarostami sulla solitudine e l’individualismo, sulle scelte e le conseguenze
Colla Elisabetta Domenica, 12/05/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2013
‘Qualcuno da amare’, il titolo dell’ultima pellicola di Abbas Kiarostami, il regista iraniano di Close-up e Copia conforme - per citare solo alcune delle sue controverse, raffinate e spesso ermetiche opere - non sembra si addica ad un film piuttosto duro e complesso, che ha come protagonista Akiko, una studentessa-escort, giunta a Tokyo all’età di 14 anni dalla zona rurale, e coinvolta, a 16, in un avviato traffico di prostituzione che le consente di mantenersi alla facoltà di Sociologia. Ed infatti il film, interamente girato nel Giappone moderno (cast, troupe, location, rigorosamente made in Japan) non ha davvero nulla di romantico ma descrive giovani, anziani, relazioni, situazioni, stati esistenziali e scelte più o meno etiche, con un occhio non giudicante, a tratti quasi lontano, ma in realtà profondamente e sapientemente umano. La scena iniziale, quasi pittorica, dove alcune studentesse sono ‘al lavoro’ in un bar con clienti senza volto, descrive una realtà di fatto, con ragazze più a loro agio, inserite e conformi alle regole di un gioco più grande di loro, ed altre, come la protagonista, che mal sopportano la situazione, raccontano bugie al fidanzato (su dove si trovano e con chi), urlano ma poi obbediscono. Molto diversa l’atmosfera dell’incontro fra Akiko (la giovanissima Rin Takanashi) ed il professor Takashi, un cliente molto particolare, che vuole solo cenare in compagnia, nella sua casa piena di libri e ricordi. Ma tutto si complica quando Noriaki (Ryo Kase), il fidanzato di Akiko, geloso e violento, scambia il professore per il nonno della ragazza. La recitazione ‘naturalistica’, o non-recitazione, caratteristica dello stile di Kiarostami, seguace dichiarato del neo-realismo italiano, lo ha portato a scartare attori ed attrici giapponesi di chiara fama, preferendo la spontaneità di comparse (come Tadashi Okuno, il professore, che per la prima volta in ottant’anni ha pronunciato delle parole in un film). “Non ho girato in Giappone solo perché mi piace il Paese, il sushi ed i giapponesi - afferma il regista - ma perché credo che il film rappresenti qualcosa che appartiene a tutto ed a tutti, iraniani, giapponesi, italiani. Quando siamo lontani crediamo di essere molto diversi fra noi, in realtà ci assomigliamo molto e rimarcare le differenze non fa che allontanarci. In Giappone il film è stato amato solo da alcuni, perché io mi ispiro al cinema tradizionale giapponese, quello di Ozo e Mizoguchi, mentre molti oggi in Giappone preferiscono il cinema americano.” Per mantenere intatta la naturalezza della recitazione,
Kiarostami non dà l’intero copione ai suoi attori, ma giorno per giorno, come nel quotidiano - dove nessuno sa cosa accadrà veramente - accade qualcosa di nuovo e la storia, anche dopo l’ultimo ciak, potrebbe continuare. Importanti i personaggi secondari, come l’anziana nonna di Akiko che, indossando il kimono (simbolo delle tradizioni che scompaiono), aspetta invano la nipote alla stazione centrale, o l’invadente vicina di casa del professore, che nascondono vissuti, sofferenze, rimpianti, solitudini: ogni scelta, ogni relazione, anche la più apparentemente inoffensiva, può scatenare una catena di reazioni. Esteticamente affascinante, con scene d’interni dove immagini e personaggi si sovrappongono in sofisticati giochi di luce, ombra e colore, che danno risalto al carattere o al passaggio emotivo del personaggio, ma privo di scene scabrose, il film in Iran ha subito la ‘consueta’ censura (ed ovviamente gira nel mercato nero); a chi gli chiede notizie del suo rapporto con l’Iran, Kiarostami risponde: “Amo il mio paese, dove si esprime comunque molta creatività: con il governo non ci capiamo, non c’è reciprocità, ma non amo lamentarmi”.
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