Mercoledi, 03/10/2012 - Prendo alla lettera il vostro imperativo, Primum vivere, sperando che la scelta del latino abbia voluto richiamare il ricordo di una lingua che fu davvero ecumenica e condivisa, anche se solo dal ceto intellettuale, di tutta Europa.
Ho sentito, nel vostro incipit, il richiamo a un respiro più vasto, anche rispetto a quell’uso meschino che poi si fece in Italia del latino, come strumento di discriminazione e selezione, mortificato a mero codice di riconoscimento per la costruzione di una classe dirigente la cui insipienza, nonostante i titoli accademici, è sotto gli occhi di tutti.
Pur non appartenendo al gruppo delle figlie degli “uomini colti”, mi trovo davanti alla scelta di come destinare le mie tre ghinee in questo momento.
Ho svolto con passione l’onesto lavoro d’insegnante, sentendomi fortunata, pur avendolo conquistato con quell’impegno che molte di noi hanno messo a frutto attingendo all’atavica abitudine al lavoro duro e approfittando di alcuni spiragli aperti dalle lotte egualitarie degli anni Settanta.
Dei pochi che ce l’hanno fatta allora, (del mio ceto sociale) penso che noi donne siamo state più tenaci e più brave, soprattutto quelle, come me, cresciute femministe e costantemente impegnate per concretizzare il mondo migliore, guardandolo con occhi di donna, nell’uguaglianza delle possibilità, nella cancellazione delle discriminazioni, nella fine delle gerarchie sociali, nella pace tra umani e con la terra.
Intelligenze, competenze, impegno, spesso perfino lungimiranza e capacità di empatia, che la classe dirigente di questo paese (non solo i politici e i governi) ha oscurato, mortificato, tenuto ai margini, perfino condannato e sbeffeggiato.
E oggi, tra le tante incertezze, grava anche sul mio futuro quella di poter avere un’onesta pensione.
Scusate se l’ho fatta lunga, ma tutto questo ovviamente riguarda la scelta che devo fare sull’investimento delle mie tre ghinee.
Perché il reddito arriva o da un onesto lavoro o da oneste eredità (per quanto nessuna eredità sia davvero mai innocente) e per chi non ha la seconda, l’incertezza della prima rende tutto più difficile.
È la condizione della maggioranza, uomini e soprattutto donne, che mai hanno raggiunto in Italia la piena occupazione.
È la condizione di una maggioranza, collocata sui molti gradini di una scala discendente, che vede in fondo chi perde la vita, per inquinamento, per sfruttamento, per incuria, nel mare attraversato con speranza per arrivare nel nostro paese e ricominciare da dove erano collocati i miei genitori: lavoro duro e senza diritti.
Al fondo del fondo, quello in cui non riusciamo davvero a guardare, le donne uccise, solo perché vogliono essere se stesse.
Guardo con orrore e preoccupazione all’erosione del diritto allo studio, che sognavo diventasse diritto alla cultura, alla formazione permanente, mentre mai si è allargato davvero a tutti e tutte, e oggi viene riproposta la ferocia classista dietro la maschera del merito, il sessismo nei contenuti e il razzismo nelle opzioni. Semplifico ovviamente.
Nel disastro economico, che si chiama crisi del capitalismo, l’idea brutale che si evince dalle scelte dei governi, non solo l’ultimo, è quella di un’eugenetica sociale in cui si definisce necessità la salvezza di pochi e la perdita di molte.
Uso la desinenza secondo la logica non sessista ovviamente, dove democraticamente entra in uso quella della maggioranza dei soggetti in questione.
Si è rilanciata la categoria “giovani”, già cara al fascismo, per mascherare la realtà di donne e uomini a cui sono tolti i più elementari diritti: alla casa, ad avere figli, a un lavoro dignitoso, ad avere tempo per sé, alla cultura, alla bellezza, all’aria e all’acqua, a vivere in un territorio non asservito alla cementificazione, a pensare e lavorare per il proprio futuro.
I conti non tornano e l’imbroglio continua ad essere sistema, ma sarebbe un discorso lungo.
Per questo quarant’anni di pratica femminista e di impegno politico con donne mi rendono accorta nelle scelte.
L’uso del denaro, più di ogni altra cosa, racconta ciò che siamo e ciò che vogliamo, perfino oltre le nostre intenzioni.
Metto in fila, ma l’ordine non è per importanza, come per i figli/figlie ti occupi di ognuno in modo diverso e cominci dal più piccolo/a, per ragioni che alle donne non devono essere spiegate.
Dovendo scegliere la prima ghinea è, in questo momento, per il Gruppo Sconfinate, l’ultimo che ho promosso, operante a Romano di Lombardia, dove insieme cerchiamo di costruire dibattito politico facendo conoscere lo sguardo femminista sul mondo.
Ho letto che una donna nota ha dichiarato che le femministe non hanno mai parlato con le donne comuni e mi chiedo se lei abbia mai parlato con una donna comune femminista.
Per la mia esperienza le donne che hanno coscienza di sé sono sempre fuori dal comune e ne conosco molte, purtroppo non lo sono tutte. Per avere coscienza di sé non c’è bisogno di una laurea e nemmeno di avere visibilità mediatica.
Per la seconda ghinea c’è Marea, mi sono detta, l’avventura in cui sono stata coinvolta da Monica Lanfranco e Laura Guidetti, che hanno messo in piedi la rivista più di quindici anni fa, donne resistenti con cui mi trovo a casa ad Altradimora.
Per la terza ghinea c’è l’Udi, un’associazione nata dalle madri della Repubblica la cui storia continua a essere omessa e distorta (sarà un caso?) e i cui progetti politici tendono a essere cancellati anche da molte donne che hanno il potere di raccontare la storia delle donne di questo paese.
Come sappiamo la storia non è ciò che accade, ma ciò che si racconta, altrimenti non ci sarebbero le cancellazioni, omissioni e distorsioni che conosciamo rispetto alla metà del genere umano.
Le ghinee sono solo tre perché la chiarezza simbolica mi orienta nelle scelte concrete; in questo caso mi sono chiesta: perché dovrei andare in un luogo a discutere come singola donna se queste tre appartenenze sono così importanti nella mia vita?
Non siamo all’anno zero del femminismo e non lo eravamo nemmeno negli anni Settanta.
Eravamo solo molto ignoranti di tutta la storia politica che ci aveva precedute, di cui l’Udi (oggi Unione donne in Italia), tra l’altro, è un pezzo fondamentale.
Ignoranza nella quale continuano a essere tenute le giovani donne che ci crescono acconto e anche i giovani uomini che hanno pari diritto di conoscere.
Proprio nell’Udi, alla fine degli anni Ottanta, ho affermato che era già cominciata da tempo la vendetta politica del patriarcato sulle donne italiane e questa vendetta avrebbe utilizzato come strumento fondamentale la TV e dietro, in forma più subdola, l’azione dell’area più fondamentalista del cattolicesimo nazionale, al quale si sarebbe accodato il maschilismo dei partiti, sostenuto dalle donne stesse che possono trovare una personale convenienza nel sostegno al patriarcato.
Non so se per caso sia morto nel frattempo perché sono troppo occupata con le macerie e questa storia la scriveranno le nostre nipoti.
Anche qui semplifico, ma cos’è accaduto a noi, e quindi a questo paese, tra la vittoria per la legge 194 e la sconfitta della legge 40?
Alcune amiche mi dicono “vado a Paestum per sentire cosa c’è di nuovo” “Su che cosa?” chiedo io
Chi chiama chi a che cosa?
Come ho scritto l’anno scorso per il 13 febbraio, se ci sono donne che chiamano, per continuare un pezzo di cammino insieme, io ci sono.
Ero a Milano alla grande manifestazione di Usciamo dal silenzio qualche anno fa (ce la ricordiamo ancora?), ero in piazza a Bergamo il 13 febbraio 2011 rispondendo alla domanda Se non ora quando?
Una boccata d’aria e poi tutto si richiude, resta la visibilità di qualche presa di posizione, spesso sacrosanta, ma modesta sul piano degli obiettivi.
A Siena, a luglio 2011, eravamo duemila, la parola d’ordine era trasversalità per unire il movimento, come se fossimo all’inizio della nostra storia. Gli unici obiettivi trasversali sono a malapena il ripristino parziale di tutele che vergognosamente ci vengono offerte a prezzo della sottrazione dei diritti di cittadinanza.
Non siamo all’anno zero della nostra storia che, tra l’altro, non è una, ma molte e diverse come diverse sono le nostre scelte politiche.
Se il disagio (per usare un eufemismo) resta grande e condiviso, non basta una chiamata generica fondata sull’essere donne.
Per l’8 marzo 1977 l’Unione Donne Italiane, che preparava il suo X Congresso, fece un manifesto molto bello, con la scritta: La mia coscienza di donna in un grande movimento organizzato per cambiare la nostra vita.
Di tutte quelle parole l’unica che resta come domanda aperta e inevasa è “organizzazione”.
Più di vent’anni fa, sempre nell’Udi, Lidia Menapace affermò che l’unica forma possibile per mettere insieme il variegato movimento delle donne era una Convenzione: convenire per una comune convenienza, costruendo azioni definite di cui predisporre la fattibilità e verificare l’esito, un patto non generico, ma preciso in cui si dichiarano i soggetti, le mete, le condizioni, i tempi, le risorse che vengono messe a disposizione.
Un luogo nel quale si converge temporaneamente, rendendo visibili le proprie case politiche, appartenenze di gruppo, incarichi istituzionali, per mettere in comune risorse e idee, per un movimento verso qualcosa che non sia solo la verifica della nostra esistenza o la protesta.
Questo paese è tornato indietro, ma nel frattempo in molte siamo andate avanti, mettendo in piedi associazioni, gruppi, servizi, inventandoci luoghi di vita, di lavoro, di sperimentazione, case e archivi, circoli e attività, riviste e scuole.
Dalle piazze degli anni Settanta alcune sono arrivate al Parlamento, altre ad avere responsabilità significative negli enti locali, altre ancora ad una cattedra all’università, ci sono donne imprenditrici e dirigenti in settori importanti della P.A. della sanità, della scuola, ci sono femministe perfino nei partiti. Ancora poche certo, ma abbastanza per mettere in difficoltà la cittadella del potere maschile?
Vediamo ogni giorno i limiti, le difficoltà, le fatiche, le lotte continuamente necessarie, ma nessuna di noi, femminista, è sola, abbiamo tutte case e appartenenze significative.
Perché una chiamata a noi donne e non alle nostre associazioni?
Perché non rendere visibile ciò che abbiamo costruito, ciò che ci sostiene quotidianamente, la storia da cui veniamo, le esperienze politiche che possiamo spendere anche per altre?
Non è in quanto donne che possiamo rispondere, ma solo per ciò che significa per noi essere donne e ciò che abbiamo costruito con le altre fa parte di ciò che siamo.
Siamo capaci di mettere insieme la nostra indignazione, possiamo farlo anche con i nostri patrimoni? La somma delle nostre capacità diventerebbe moltiplicazione delle possibilità.
Per la politica quotidiana ci siamo attrezzate da anni e sappiamo come fare, ma i tempi chiedono una creatività inedita, una discontinuità visibile e fattiva.
Perché non preparare gli Stati generali delle donne in Italia?
Non posso venire a Paestum, nemmeno per la sua straordinaria bellezza, perché in questo momento vorrei che potessimo incontrarci in Lombardia, nel cuore della cementificazione che ha distrutto la pianura più fertile d’Italia, e far nascere un incontro in ogni regione e prima ancora in ogni provincia e prima ancora in ogni paese o quartiere.
Io non posso che continuare da qui, perché solo quando le periferie si muovono un paese cambia davvero.
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