A TUTTO SCHERMO - Al Visioni Fuori Raccordo Film Festival presentati i documentari ‘Visit India’ e ‘This is my land…Hebron’
Colla Elisabetta Mercoledi, 28/12/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2012
La quinta edizione del Visioni Fuori Raccordo Film Festival, una manifestazione che esplora i tanti temi legati alle periferie nel nostro Paese - in senso concreto e metaforico - e che si svolge a Roma presso il Nuovo Cinema Aquila, ha presentato, fra le altre opere, due documentari di grande impatto, realizzati da intraprendenti e talentuose registe che trattano temi diversamente connessi al tema del confine e della marginalità, tra intercultura e politica, in Italia e nel mondo. Ad entrambe abbiamo rivolto domande analoghe sul proprio lavoro e sulla condizione femminile.
Visit India, di Patrizia Santangeli. Frequentando il litorale di Sabaudia e dintorni, da qualche anno a questa parte è impossibile non notare i tanti indiani con turbanti dai vivaci colori che si spostano in bicicletta lungo le strade principali: appartengono alla comunità Sikh che, nel corso degli ultimi trent’anni, si è stabilita nella zona dell’agro pontino, e lavorano come braccianti nelle serre o in altri lavori agricoli, con salari da fame (2-4 euro l’ora per 12 ore di lavoro), raggiungendo oggi circa le 10mila persone. Dall’osservazione di questa realtà è nata l’idea del bel documentario Visit India, della regista sarda Patrizia Santangeli, documentarista, direttore creativo, copywriter, oggi regista a tempo pieno (fra le sue opere Allegro moderato, filmati web, videoclip), da sempre interessata ai temi dell’alterità, del sociale e dell’integrazione: la regista si avvicina con sguardo discreto ma grande intensità a questo mondo, lontano eppure vicinissimo, denso di bellezza e speranza ma irto di difficoltà, esplorando la quotidianità del lavoro e della vita familiare, dei tanti indiani Sikh che hanno portato con sé, dal lontano Punjab (India del Nord), fino al cuore della provincia di Latina, tradizioni, culti religiosi ed un’antica cultura.
Com'è nata l'idea del documentario Visit India e che cosa ti è rimasto di importante dopo il contatto con la cultura Sikh trapiantata in provincia di Latina?
Tutto è nato percorrendo la strada che porta al mare a Sabaudia. Ci passo spesso e mi piace molto perché costeggia il Parco del Circeo, i campi, le serre luccicanti d’estate, le case costruite durante la bonifica. Una bella atmosfera che da un po’ di anni ha cambiato sapore perché a percorrerla ci sono anche gli indiani sikh che, con tanto di turbante, vanno al lavoro o al tempio in bicicletta. Mi è scattata naturale la curiosità di conoscerli e da lì alla voglia di farne documentario il passo è stato breve.
Hai avuto problemi come donna regista ad entrare in contatto con il mondo che racconti?
Non li chiamerei problemi, ma curiosità e qualche timidezza in più. Spiegare che stavo facendo un documentario era praticamente impossibile perché sono pochi i sikh che parlano italiano. Certo, se e quando vedranno il documentario temo che rimarranno un po’ delusi dal mio lavoro: mi hanno visto fare le riprese per tanto tempo e si aspettano sicuramente un film di ore e ore, come da loro abitudine, invece Visit India dura 55 minuti. Ad ogni modo vedere una donna che riprendeva non era del tutto consueto per loro e la presenza dei miei compagni di viaggio, il fotografo Gabriele Rossi e il sociologo Marco Omizzolo, è stata un ottimo lasciapassare per vincere le loro timidezze.
Cosa significa per te girare con la macchina da presa? Paragoneresti questo lavoro a un viaggio?
Riprendere per me è guardare più a fondo le persone, i posti, gli oggetti. Con la telecamera mi sento più protetta nell’osservare, più determinata nel chiedere, più vicina all’intimità delle persone e alla mia. Riguardo a Visit India è una visione su un posto e sull’immigrazione presentata in forma di viaggio, ma soprattutto è un invito al viaggio rivolto a chi non ha ancora scoperto che gli stranieri ci restituiscono un’Italia che altrimenti non avremmo conosciuto.
Secondo te oggi le donne hanno ancora battaglie da fare in campo lavorativo, sociale e culturale?
Quello che mi viene da dire subito è che sicuramente c’è molto da fare ma che le vere battaglie si fanno a pochi centimetri da noi, con le persone che frequentiamo nella vita e nel lavoro. E poi non credo molto nella “battaglia”, quando si combatte si è più concentrati sulle tattiche di vittoria che non sul bene della causa. Certo, quando una donna diventa presidente, ministro, amministratore di condominio, ho sempre l’impressione che il destino del mondo o del palazzo abbia qualche chance in più. Ma forse è il solito tifo calcistico per la squadra delle donne.
This is my land...Hebron di Giulia Amati e Stephen Natanson. Storie di vita vissute nei territori occupati: prevaricazioni, violazioni dei diritti elementari e strategia della tensione sono il pane quotidiano ad Hebron, uno dei luoghi-simbolo dell’occupazione israeliana, terra contesa per eccellenza, dove i coloni occupanti, ebbri di fanatismo patriottico-religioso vessano, giorno dopo giorno, ora dopo ora, i palestinesi occupati, alimentando l’odio reciproco fra i due popoli ed inculcando la cecità ed il pregiudizio anche ai bambini, ed è normale vedere piccoli ortodossi che insultano e prendono a sassate anziane signore arabe barricate dietro gabbie protettive. Ma che vita è mai questa? Anche per rispondere a questa domanda due coraggiosi registi, Giulia Amati e Stephen Natanson, hanno realizzato il docu-film “This is my land...Hebron”, decidendo di riprendere, con la videocamera e l’occhio attento del testimone partecipante, immagini ed eventi, ascoltando punti di vista plurali, parti in causa, giornalisti, membri di organizzazioni umanitarie, soldati pentiti divenuti accompagnatori turistici nei territori. Il documentario, vincitore del Festival di Bellaria, di una menzione speciale al MedFilm Festival 2011 ed altri premi, è andato in onda su RAI5.
Perché hai deciso di girare questo documentario?
Ho ricevuto la proposta di insegnare film-making a Hebron e ci sono andata: una volta lì ho iniziato a girare, a vedere ed ho conosciuto molte persone significative, come Yehuda, fondatore di ‘Breaking the Silence’ che, dopo aver lasciato l’esercito perché non approvava ciò che accadeva ad Hebron, ora vi accompagna turisti e giornalisti per spiegare cosa succede. Poi ho chiamato Stephen Natanson, perché non sono un tipo troppo coraggioso, ed abbiamo cominciato a girare, ho ascoltato le organizzazioni umanitarie a favore dei palestinesi ed ho inserito il punto di vista dei coloni. Ho raccolto tantissimo materiale ed ho impiegato tre anni per montare il documentario che, inizialmente, è stato rifiutato dai Festival, poi finalmente è stato selezionato dal Festival dei Popoli ed ha vinto alcuni premi e poi c’è stata una proiezione New York alla “Hebron Foundation”, un vero banco di prova per noi, ma è andata benissimo. Non è stato facile affrontare una questione così controversa e delicata. Ora abbiamo un po’ di timore a tornare in Israele, Luisa Morgantini è una sostenitrice del documentario ma è difficile portarlo nei territori occupati.
Hai avuto problemi come donna regista ad entrare in contatto con il mondo che racconti?
Non saprei, credo che in una situazione claustrofobica come quella di Hebron l’aspetto che più ha contato nel rapporto con le persone era il fatto di essere una straniera e di avere una videocamera. In questo senso il sesso e l’età passano in secondo piano. La gente ti tratta come una specie di angelo, un essere senza sesso. Per i palestinesi poi, che non possono uscire dai territori occupati, poter accogliere uno straniero in casa è un modo di viaggiare e di raccontare al mondo la propria esperienza. In una città come Hebron è difficile che qualcuno ci capiti per caso o ci vada per piacere, il semplice fatto di essere uno straniero genera attenzione e interesse. Abbiamo lavorato sulla documentalità, sul testimoniare, senza edulcorare quanto visto né porre un diaframma a livello emotivo verso le sensazioni provate, contro la strategia dello svuotamento.
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