Viaggi - Spesso nel nostro affollato silenzio interiore ci capita di sentire nostalgia di ciò che in realtà ancora non conosciamo
Angelucci Nadia Lunedi, 26/07/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2010
Nasciamo nomadi. L’essere umano si è evoluto su questo pianeta viaggiando e colonizzando le differenti terre che lo hanno accolto. Per migliaia di anni i cacciatori raccoglitori e poi gli allevatori hanno viaggiato ‘scoprendo’ i differenti continenti; una ricerca di cibo, di acqua, di terra, di senso li ha accompagnati nel loro infinito camino. Solo 10.000 anni fa con le prime manifestazioni di un nuovo tipo di economia fondata sull’agricoltura comincia a venir meno il nomadismo. Da lì in avanti l'economia basata sulla coltivazione si diffonderà e si espanderanno gli insediamenti di tipo urbano. Nascerà quella che siamo abituati a chiamare ‘civiltà’ e chi vive una vita nomade comincerà ad essere considerato un barbaro, un primitivo, un incivile.
Ma l’istinto al viaggio, alla scoperta dell’ignoto, al semplice muoversi nello spazio sono rimaste una delle caratteristiche comuni all’intero genere umano. I grandi imperi dell’antichità con la vocazione all’espansione, le scoperte geografiche dell’età moderna, i flussi migratori ne sono testimoni.
“Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini" diceva Ibn Battuta, esploratore marocchino di origine berbera vissuto nel quattordicesimo secolo e considerato, per la vastità delle sue esplorazioni, il Marco Polo del mondo arabo. L’affermazione, in un certo senso buberiana, riflette nell’idea del viaggio quella della relazione; la piena conoscenza di sé e degli altri avviene solo in questa relazione che fa esistere entrambe le identità. Sul viaggio come senso e costruzione del sé interviene anche Bruce Chatwin, autore del libro culto “In Patagonia”, che in “Anatomia dell'irrequietezza” afferma “il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma. Le nostre prime esplorazioni sono la materia prima della nostra intelligenza”: la suggestione dell’immagine del neonato che attraverso l’esplorazione del mondo raggiunge la sua compiutezza fa parte del bagaglio esperienziale di ognuno di noi, non solo come infanti ma anche come adulti. Tutta la nostra vita scorre in un viaggio ininterrotto del quale spesso non siamo consapevoli; incapaci di riflettere sul significato dell’esistenza e sull’imprevedibilità del nostro viaggio: “viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso” (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra).
Ma la sensazione è che l’uomo moderno, capace di spostarsi e di essere ovunque nel giro di poche ore – se non di pochi secondi, attraverso le reti informatiche – non è più capace di viaggiare. Abbiamo il navigatore satellitare ma abbiamo perso i punti di riferimento con il territorio e il diletto dell’incontro con i nostri simili; ci facciamo trasportare ovunque ma restiamo sempre nello stesso luogo-nonluogo. La figura del viandante romantico ed inquieto, alla ricerca della ‘dimensione insondabile’ è in via di estinzione e suscita perlopiù un interesse divertito, quello riservato all’esotico. Scrive Jack Kerouac nel suo capolavoro “On the road”: “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. - Dove andiamo? - Non lo so, ma dobbiamo andare”. Questa necessità di movimento istintivo e forzato sembra essere riservata nella nostra epoca solo ai migranti; individui che si spostano tra territori e culture, intraprendendo viaggi che comportano una completa riconsiderazione della propria identità, dei propri stili di vita, costumi, pratiche religiose. Sono persone soggette ad una doppia privazione: alla perdita dei legami con il proprio paese di provenienza si aggiunge la difficoltà di trovare una collocazione nel paese di destino. Dualità che possiamo ritrovare anche nei sostantivi che li definiscono: sono emigranti, per la propria società d’origine , e immigrati, per quella d’accoglienza. Sono forse i simboli della modernità, dello sradicamento che ci siamo imposti recidendo completamente i legami con la terra, con i ritmi della natura?
Il rapporto con la terra, con il continuo movimento del pianeta, con l’alternarsi delle stagioni ci appartiene geneticamente; per questo ci capita, nel nostro affollato silenzio interiore, di sentire nostalgia di ciò che in realtà ancora non conosciamo. E i nostri viaggi più belli non si concludono con il ritorno a casa. In questa epoca delle ‘passioni tristi’ il viaggiatore non può tornare indietro.
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