Poesia/ Giovanna Bemporad - Apprezzata da Pier Paolo Pasolini, Camillo Sbarbaro e Giovanni Raboni questa poetessa si mostra in un’alchimia compositiva, caratterizzata da una lingua di straordinaria modernità e un estremo rigore formale e ritmico
Benassi Luca Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2005
Se per giudicare l’importanza o meno di un poeta o una poetessa bastasse utilizzare il criterio della quantità dei libri scritti e pubblicati, sarebbe facile riscrivere la storia della letteratura in base a meri calcoli numerici e giustificare esclusioni, o peggio ancora inclusioni indebite, nei canoni consolidati. Ma se ancora prevale un metro di giudizio, per quanto generale e non univoco, basato sulla memorabilità di una poesia che mantenga inalterata nel tempo la capacità di raccontare l’essere umano attraverso testi che conservano il loro valore nella storia, allora non si capisce il perché una poetessa come Giovanna Bemporad sia esclusa da antologie ed elencazioni più o meno autorevoli, anche in presenza di giudizi critici di rilievo espressi, fra gli altri, da poeti come Pier Paolo Pasolini – suo primo recensore ed amico -, Giovanni Raboni, Camillo Sbarbaro ed Elio Pagliarani che la considera sua “maestra”. La Bemporad è nota soprattutto per il suo lavoro di traduzione. Dopo aver esordito poco più che adolescente con una traduzione in endecasillabi dell’Eneide, si dedica ad autori classici (Omero, Saffo e brani tratti dai Veda, gli antichissimi testi sacri indiani), simbolisti francesi (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé) e lirici tedeschi moderni (Hölderlin, Rilke, George), pubblicati nel 1948 insieme a una scelta di proprie poesie nella raccolta Esercizi, ristampata da Garzanti nel 1980. La stessa casa editrice ristampa nel 1981 l’Elettra di Hofmannsthal e nel 1986 i Canti spirituali di Novalis.
Nel 1990 la casa editrice Le Lettere di Firenze pubblica, e ristampa successivamente nel 1992 e nel 2004, l’opera a cui la Bemporad ha dedicato tutta la vita: le stesura definitiva in endecasillabi, non ancora completa, dell’Odissea con la quale ha vinto nel 1993 il Premio nazionale per la traduzione letteraria istituito dal Ministero per i beni e le attività culturali. Ed è proprio la traduzione dell’Odissea ad aver dato notorietà alla Bemporad, attraverso un testo costruito sul calco dell’originale con la musicalità dell’endecasillabo italiano, un’operazione che in simili traduzioni dei poemi omerici ha raramente raggiunto esiti così perfetti e allo stesso tempo di estrema godibilità di lettura. Tanto che nel 2003 la Einaudi ne ha dato alle stampe un’edizione scolastica per i licei; ed è di prossima uscita anche l’edizione scolastica dell’Eneide da lei tradotta e già pubblicata nel 1983 presso Rusconi.
La casa editrice Archivi del ‘900 ha recentemente pubblicato Cara Giovanna - Lettere di Camillo Sbarbaro a Giovanna Bemporad (1952-1964), che ripropone alcune delle lettere che il poeta ligure scrisse alla nostra poetessa.
Giovanni Raboni ha definito il lavoro della Bemporad: “di un infinito perfezionamento ritmico e sonoro, teso a restituire all’endecasillabo il suo diritto a esistere nella poesia del Novecento con una pronuncia originale e moderna. È quasi impossibile, nel suo caso, fare distinzione fra testi originali e testi derivati: negli uni e negli altri circolano la stessa ansia di assolutezza formale, la stessa vitrea incandescenza, un'unica rarefatta ossessione”. La purezza timbrica e musicale nell’endecasillabo della Bemporad è riscontrabile nell’opera di traduzione quanto, e forse ancora di più, nei testi creativi, pubblicati fino ad oggi solo nell’ormai introvabile edizione garzantiana degli Esercizi del 1980. La metrica della poetessa si muove all’interno di una chiarezza sonora caratterizzata da un estremo rigore formale e ritmico, adagiato su una lingua di straordinaria modernità. Questa alchimia compositiva, che nel lavoro di traduzione dona attualità a testi di epoche e culture diverse, nelle poesie originali rinnova il linguaggio attraverso un endecasillabo che riacquista una funzione significativa e originale nella nostra poesia. La Bemporad si mostra attraverso un lirismo dalla compostezza classica, rivelando un nitore che risponde ad una linea antinovecentesca e antiermetica, e che ricorda gli endecasillabi di Cesare Pavese, Sandro Penna e Camillo Sbarbaro. Tuttavia la musica del verso si svolge con modalità cromatiche originali; ed è questa capacità di sintesi, di risoluzione delle dissonanze tra una lirica dalla liscia assolutezza formale e una novecentesca tendenza al frammento, che rende questa poetessa straordinariamente attuale e importante per la storia letteraria del secolo appena trascorso.
La scelta qui proposta include solo testi originali perché sono di minore reperibilità , escludendo le traduzioni che pure tanta parte hanno nel lavoro della Bemporad apprezzato fin dall’inizio da letterati come Leone Traverso, Manara Valgimigli, Mario Praz e tanti altri. Le poesie scelte sono state tratte dall’edizione Garzanti degli Esercizi del 1980, con le varianti autografe gentilmente proposte dall’autrice stessa.
Al momento la Bemporad sta preparando l’edizione definitiva delle sue poesie. È in corso di stampa la traduzione del Cantico dei Cantici, per i tipi della Morcelliana, che già pubblicò nel ’52 l’Elegia di Marienbad di Goethe e gli Inni alla notte di Novalis.
***
Veramente io dovrò dunque morire
come un insetto effimero del maggio
e sentirò nell’aria calda e piena
gelare a poco a poco la mia guancia?
Più vera morte è separarsi in pianto
da amate compagnie, per non tornare,
e accomiatarsi a forza della celia
giovanile e del riso, mentre indora
con tenerezza il paesaggio aprile.
O per me non sarebbe male, quando
fosse il mio cuore interamente morto,
smarrirmi in questa dolce alba lunare
come s’infrange un’onda nella calma.
***
Non farmi così sola come il vento
che si dispera in questa notte fonda
fino a morirne, eternamente sola
non farmi, come già sono da viva,
sotto la volta immensa ch’è misura
del nostro nulla. In punto di lasciare
questa mia fragile vicenda, tutte
le mie dolci abitudini, e la gioia
che spesso segue all’urto del dolore,
voglio adagiarmi su una zolla d’erba
nell’inerzia, supina. E avrò più cara
la morte se in un attimo, decisa,
piano verrà, toccandomi una spalla.
(dai “DIARI”)
In riva al mare
Dalla mia fronte io esco in riva al mare
dove sommessa mormora i suoi baci
l’onda; e conchiglie, imbuti del rumore,
ci ascoltano pudiche e indifferenti.
Davanti a me si rinnova il suo gioco
di animale veloce che ai miei piedi
si stende per piacermi e mi incoraggia
con battiti di ciglia; anima preda
di polipi e di granchi io ti respingo,
votata al clima immobile degli astri.
Su me sospende il cielo la sua curva
larga, ariosa, e modella i miei passi
non di un’età, non di un attimo, un’ora
ma di un’antichità: parola estratta
dalla tua pausa, o mare, fronte colma.
Madrigale
Padiglione di mandorli nel biondo
colore di febbraio è la campagna;
e al rapido infittirsi dei germogli
che traboccano, o in punto di incarnarsi,
la voluttà mi afferra senza braccia.
L’immagine di lei si acciglia e ride
sotto un gioco di rondini, al suo collo
mobile di baleni accosto il labbro
e alla sua bocca, foglia di sibilla.
Ma insiste per i campi un assiuolo
l’armonia di velluto, e fa un profumo
dal suo bruno languore misurato
la viola; io ripenso le sue dita
rosse all’estremità, petali intinti
di porpora, tracciare sulla sabbia
dei millenni il mio nome all’infinito.
La ninfa e l’Ermafrodito
Chiusi i suoi grandi occhi insufficienti
dove essenze d’aurora e d’ideale
galleggiano, ha disteso il fianco ambrato
tra i pioppi ed olmi anelanti all’altezza
l’ermafrodito; ha disteso il suo corpo
sull’erba, vinto dal meriggio fulvo
che impone una consegna di silenzio
e una riserva d’ombra ad ogni fronda
sospesa la dolce incanto del suo sonno.
Sono strali nel fianco e nel mio cuore
le linee del suo corpo, chiare, lisce
fino ai capelli, attorti in arabeschi
simili a verdi draghi addormentati.
Forse il belletto aereo dell’aurora
ha tinto questa bocca, molle e gonfia
come un frutto dei tropici. Il suo riso
che ride alle ninfee m’intesse il velo
di una trapunta gelosia; mi apprendo
come un’ape al suo labbro materiato
di piacere e di sonno; vi suggello
solitudini lunghe e incontri rari,
stagioni d’odio e d’amore, l’asprezza
della morte essenziale, e mi allontano
sull’ala ebbra e inquieta del pudore.
L’ossessione
Se all’indulgente luce meridiana
la mia stanchezza espongo, se il mio capo
sonoro d’inni appoggio alla carezza
di un vento blando, abbattuta su questo
tavolo d’osteria, nel cerchio d’ombra
di un largo ippocastano, quale demone
malvagio in me risveglia l’ossessione
che il mio viso riflesso nel boccale
fa tremare, e il suo liquido compagno?
Guardo gelarsi le più calde stille
di gioventù nei miei occhi di smalto,
guardo con gli occhi appostati nell’ombra
della follia seccarsi le più ricche
stille di gioia sul mio viso arato
dal tuo piede d’avorio, arida morte.
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