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Alba Grifoni, scienziata anti Covid in California

Alba Grifoni, scienziata anti Covid in California

Da Roma a San Diego, Alba Grifoni è la ricercatrice che combatte il COvid-19 (DiRE, Carlotta Di Santo)

Martedi, 24/11/2020 - Nata a Roma ma oggi lavora come scienziata a San Diego. Ha all’attivo diverse pubblicazioni su importanti riviste scientifiche, prime fra tutte ‘Science’, ed è stata di recente citata pubblicamente durante un congresso a Washington da Anthony Fauci, direttore dell’Istituto nazionale per la prevenzione delle malattie infettive statunitense. La ricercatrice Alba Grifoni ha ‘solo’ 34 anni ma già un curriculum di tutto rispetto. Originaria di piazza Bologna, ma cresciuta nel quartiere Eur, da sempre è appassionata di cellule T, le ‘guerriere’ del sistema immunitario in grado di combattere le aggressioni contro diverse infezioni virali.

DAL DOTTORATO AGLI STUDI SUL COVID-19
Dopo un dottorato di ricerca in Immunologia, conseguito all’Università Tor Vergata, e un’esperienza lavorativa a Sofia, in Bulgaria, la dottoressa Grifoni è approdata nel 2016 a ‘La Jolla Institute of Immunology’, in California, dove fa la ricercatrice nel laboratorio diretto da un altro italiano, Alessandro Sette. Ed è proprio qui che, combinando approcci sperimentali e previsioni computazionali, indaga sulle risposte dei linfociti T contro diverse infezioni virali come Dengue, Zika, Chikungunya e, più recentemente, contro il Covid. Per saperne di più l’agenzia Dire l’ha intervistata.

– Per il suo studio sul Covid-19 è stata inserita tra i finalisti dell’Embassy of Italy Award, il premio assegnato dall’Issnaf, la fondazione che riunisce scienziati e accademici italiani attivi in laboratori, università e centri di ricerca nel Nord America. Ma qual è il cuore della sua ricerca?
“Abbiamo iniziato i nostri studi proprio all’inizio dell’epidemia, intorno alla fine di gennaio, ed eravamo interessati a capire quale fosse la risposta immunitaria contro il virus. E la domanda che ci siamo posti era molto importante, perché senza una risposta immunitaria un vaccino non avrebbe funzionato. Per questo abbiamo deciso di andare a prelevare pazienti o campioni di sangue di pazienti convalescenti, cioè che avevano avuto un’infezione ma un andamento lieve della malattia, perché cercavamo di avere pazienti che si comportassero più similmente al resto della popolazione. Come sappiamo, infatti, la maggior parte delle persone che si infettano con SARS-CoV-2 ha un andamento della malattia lieve o addirittura asintomatico. Prelevando questi campioni, quindi, siamo andati ad analizzarli. La risposta immunitaria ha diverse componenti, ma la principale che il vaccino vuole utilizzare è la produzione di anticorpi. L’anticorpo riconosce infatti porzioni della proteina esterna del virus e, legandosi a questo virus, gli impedisce di infettare la cellula”.

– Ma se l’anticorpo non riesce a legare tutti i virus, il virus entra nella cellula e gli anticorpi non sono più in grado di vederlo. È a questo punto, dunque, che entrano in campo le cellule T ‘killer’, le quali riconoscono la cellula infettata e la uccidono.
“Esattamente: da una parte c’è una componente di cellule T ‘killer’, che appunto uccidono la cellula infettata, dall’altra una componente di cellule T ‘helper’ che aiutano il sistema immunitario a montare una buona risposta con gli anticorpi e con i killer. Nel nostro studio mostriamo che tutti i pazienti che abbiamo analizzato hanno una risposta immunitaria molto forte e questa è un’ottima notizia per i vaccini. Il virus ha molte proteine ma la maggior parte dei vaccini sono ‘disegnati’ su una sola proteina di superficie, la Spike, per cui siamo siamo andati a vedere anche se il sistema immunitario rispondesse contro questa proteina. Ed effettivamente lo fa, quindi diciamo che la nostra ricerca ha aiutato a corroborare il fatto che una strategia vaccinale fosse indicata in questo senso”.

– I risultati della sua ricerca mostrano un qualcosa di molto interessante, cioè che ci sarebbero dei virus della stessa famiglia del Covid, ma più comuni e diffusi (come semplici raffreddori), che in qualche modo addestrano il nostro corpo ad una risposta immunitaria. È così?

“Sì, è corretto. Dobbiamo pensare che, trovandosi nella stessa famiglia, SARS-CoV-2 e i virus del comune raffreddore sono cugini, quindi non hanno delle proteine esattamente identiche ma sono simili a sufficienza. Tant’è che il 50% dei pazienti che noi abbiamo analizzato, molto prima che il nuovo virus arrivasse (i campioni di sangue sono stati prelevati nel 2015-2018, ndr), era in grado di riconoscere parti di SARS-CoV-2 senza mai essere stato esposto al virus”. I linfociti T, insomma, giocano un ruolo centrale nella immunità cellulare e sul comportamento immunitario ‘crociato’, cioè causato da altri virus più comuni, nei pazienti affetti e poi guariti da Covid. “Questo lo abbiamo visto nel nostro primo studio pubblicato sulla rivista scientifica ‘Cell’ e poi lo abbiamo indagato più nel dettaglio con una seconda pubblicazione su ‘Science'”.

– Lei ha dichiarato che il suo studio potrà anche indirizzare i futuri vaccini sul Covid. In che modo?
“Quando abbiamo analizzato la risposta immunitaria siamo andati a guardare tutte le proteine del virus e quello che abbiamo visto è che non c’è solo una risposta forte contro la Spike, ma anche altre proteine del virus sono in grado di indurre una buona risposta immunitaria. In questo senso, i vaccini di seconda generazione che riusciranno ad includere proteine addizionali possono essere veri candidati da consegnare nel futuro“.

Intanto in Italia un noto virologo, Andrea Crisanti, qualche giorno fa ha detto che senza dati certi il vaccino a gennaio non lo farebbe, perché normalmente ci vogliono dai 5 agli 8 anni per produrlo. Lei cosa ne pensa? Si vaccinerebbe contro il Covid a gennaio?
“Assolutamente sì! È vero che la ricerca sta progredendo più rapidamente ed è anche vero che ci troviamo di fronte ad una epidemia mai arrivata prima, ma c’è un’enorme collaborazione scientifica a livello internazionale. Sul vaccino contro il Covid si stanno facendo moltissime ricerche e ci sono dati che continuano ad uscire. Chiaramente il vaccino sarà approvato solo dopo aver revisionato tutti i dati. Ma il fatto che sarà più rapido non vuole dire necessariamente che debba avere dei problemi. Quindi tornando alla sua domanda, sì, appena mi chiamano mi vaccino”.

– Un’ultima domanda: dottoressa Grifoni, lei è una giovane donna con alle spalle un curriculum di tutto rispetto. Ha lavorato in Bulgaria e poi negli Stati Uniti… Ma tornerebbe a lavorare in Italia?
“La mia ricerca è quella che ha guidato i miei passi, sono sempre stata appassionata allo studio delle cellule T nelle infezioni, quindi ovunque la mia carriera e i miei prossimi passi mi porteranno io andrò. E se l’Italia mi darà un’occasione, torno volentieri”.

Articolo di Carlotta Di Santo pubblicato dall'Agenzia Dire il 23 novembre 2020

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