Un viaggio tra Siracusa, Palermo e la Capitale per comprendere fino a che punto il diritto di salute dei migranti venga rispettato.
Lunedi, 30/09/2013 - Avola, provincia di Siracusa. Qui capita che la radio per qualche secondo si sintonizzi su frequenze diverse e lo speaker parli improvvisamente in arabo: l’Africa e il Medio Oriente sono vicinissimi. La dottoressa Basile, oltre ad essere una ginecologa, è una vera memoria storica del fenomeno migratorio in Sicilia. Dal 1990 ha visitato migranti appena sbarcati provenienti da molti luoghi diversi. Incontrarla è come attingere ad un pozzo di storie, raccolte anche nei 5 anni di lavoro presso il centro di accoglienza di Cassibile, chiuso nel 2011 a seguito di diverse interrogazioni parlamentari. È lì che ha avuto accesso alle storie delle donne con le quali ha stretto un rapporto che andava ben aldilà della cura. “Come si fa a fare il medico e basta? Io ho voluto capire le loro usanze, ci siamo curate il corpo insieme. Mi hanno raccontato cose che non dicevano a nessuno e per me non erano più “la migrante numero...” ma donne con un nome e una storia. Quelle che viaggiavano sole, durante le soste, principalmente in Libia, subivano violenze allucinanti e irraccontabili che io stessa ho constatato durante le visite”. Non mancavano i medicinali nel centro, né i dottori, ma i migranti, a cui era impedito uscire, si sentivano in gabbia e volevano raggiungere i punti di riferimento che avevano in Italia o in altri paesi.
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