Oltre il 40% delle aziende italiane non si vergogna di dire che preferisce assumere uomini. Il dato proviene dall’ultima indagine Excelsior, quella che ogni anno fa l’Unione delle Camere di Commercio per quantificare i fabbisogni di forza lavoro e quindi le prevedibili assunzioni, ed è riportato nel libro di Alessandra Casarico e Paola Profeta “Donne in attesa” (pag.53).
Più precisamente, nel 2008 il 41,4% delle imprese dichiarava di preferire l’assunzione di uomini, il 17,4% di donne e il resto (un altro 41%) dichiarava di essere indifferente. Questo benché un’indagine della stessa Unioncamere documentasse che il “fattore D” aumentava non di poco la competitività delle imprese
Non mi stupisce più di tanto che esista questa preferenza per gli uomini (lo si constata tutti i giorni in ogni modo), quanto che venga dichiarata senza problemi, pur essendo in vigore varie leggi che impedirebbero alle aziende di fare discriminazioni fra uomini e donne e che teoricamente potrebbero comportare qualche sanzione. Insomma, se l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, qui non c’è neanche quella.
Ai manager invece le donne piacciono un po’ di più. L’impresa di medio-grande dimensione, più strutturata e più “professionalizzata”, talvolta a capitale straniero, sembra offrire migliori chance alle donne rispetto alle imprese familiari, le quali al massimo accettano le donne di famiglia. Peccato che le imprese familiari siano la tipologia largamente prevalente nell’economia italiana.
Che il problema non riguardi solo molte aziende ma l’intera società italiana è documentato da un post di qualche mese fa di Rosa Blog (Chiara Valentini), “A D’Alema non piacciono le donne“ - al quale mi sono ispirata per il titolo - e che documenta una sorta di ostracismo della Fondazione Italiani Europei per le intellettuali femmine.
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