Slovenia - Cresce il divario tra ricchi e poveri, il rischio di povertà è alto soprattutto tra le donne anziane. Ritratto di un paese in cui il sistema di protezione sociale è in smantellamento. Dove a pagare di più sono le donne.
Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2009
L’enfant terrible della nuova economia slovena si è chiamato per un certo periodo Mićo Mrkaić, 37- enne, titolare della cattedra di economia alla facoltà di scienze manageriali di Lubiana. È stato lui il guru della strategia economica del governo di centrodestra guidato da Janez Janša dal 2004. Il premier lo ha nominato presidente del “Consiglio strategico economico del governo”, un organo con funzioni di superministero e, soprattutto, di rompighiaccio nei piani fondamentalmente neoliberisti del governo Janša. A fianco di Mrkaić, alcuni dei più decisi sostenitori sloveni del neoliberismo, gran parte dei quali formatisi nelle università americane. Uno di questi, I. Boscarol, ha di recente proposto una tassa aggiuntiva, a mo’ di penale, per le coppie e i singoli cittadini senza prole. “Chi non fa figli - ha sostenuto Boscarol - (mettendo in pratica la dottrina demografica dello stesso Mrkaić) - deve pagare”. La proposta ha rotto il “tabù” liberale, fino ad ora dominante in Slovenia, per cui la scelta sulla procreazione è libera e, quindi, un diritto del singolo. Nel suo programma economico, Mrkaić ha descritto la scelta sulla procreazione come “un elemento produttivo cui vanno applicati criteri economici e fiscali individuali, il tutto in un’ottica di rapido smantellamento dello Stato sociale”.
Per molti versi il gruppo di Mrkaić ricorda da molto vicino i Chicago boys, i giovani economisti neoliberali cileni, formatisi negli USA, alla scuola di Milton Friedman. Questo gruppo ha lanciato la proposta di organizzare la società civile slovena, con una lotta decisa contro la tassazione delle imprese e dei profitti e contro i costi dello Stato sociale. Disprezza i sindacati, considera il welfare un mastodonte da abbattere senza remore, la cultura di sinistra un inutile ingombro, i neokeynesiani dei ciarlatani. Aspira a privatizzare tutto e punta diritto sulla deregulation più estrema.
Sostenuti dalla dottrina di questi giovani rampanti, i ministri di Janša si sono apprestati ad avviare la privatizzazione del settore pubblico. Il ministro della Sanità, Bručan, ha sostenuto la necessità di “salvare” il sistema sanitario con la sua quasi totale privatizzazione. La liberalizzazione ha investito anche scuola e infrastrutture. Il governo di Janša ha presentato un pacchetto di riforme neoliberali, grazie alle quali la Slovenia ha detto “addio al welfare”. Nel frattempo, Jože Damjan, economista d’assalto e coordinatore del gruppo di esperti, è stato nominato da Janša per tracciare la road map delle riforme economiche, sociali e finanziarie della Slovenia, sostituendo Mičo Mrkaić, deluso dalla lentezza dei cambiamenti. Damjan ha presentato al governo una nuova strategia economica, che ha incontrato il consenso anche delle organizzazioni imprenditoriali ma non quello dei sindacati, che hanno visto nelle riforme proposte un’opera sistematica di smantellamento del welfare. Le riforme puntano essenzialmente su una maggiore competitività del “made in Slovenia”, che per il gruppo di Damjan passa inevitabilmente per un ritiro dello Stato dalla gestione economica e dalla sfera pubblica, per un abbassamento dei diritti sindacali acquisiti, per un’autonomia più ampia della negoziazione tra le imprese e i lavoratori, basata su contratti individuali al posto di quelli collettivi mediati dalle organizzazioni sindacali, per una maggiore flessibilità della forza lavoro e soprattutto per una riforma fiscale tesa ad abbassare i costi del lavoro e ad aumentare la disponibilità dei profitti. La proposta che ha fatto più discutere è stata quella dell’introduzione di un’imposta unica, che aumenta le differenze sociali e colpisce i ceti più deboli. Se a ciò si aggiunge l’intenzione di azzerare il sistema dei trasferimenti sociali e dei sussidi, i meno abbienti hanno di che preoccuparsi. Gli strateghi di Janša hanno presentato questo pacchetto di riforme come un toccasana, poichè avrebbe rafforzato la stabilità dell’economia slovena nella fase dell’adozione dell’euro.
Janša ha potuto contare su un alleato: Borut Pahor, leader dei socialdemocratici. A sorpresa, Pahor ha di recente tessuto le lodi del governo Janša, dissociandosi dalle critiche dell’opposizione liberaldemocratica. Niente di nuovo; è da tempo che Pahor si è avvicinato alla destra, con cui ha condiviso anche l’appoggio all’intervento americano in Iraq. Janša è riuscito, quindi, a proporsi come colui che è riuscito a far passare il piano liberista, stemperando i radicalismi anti-sociali di Mrkaić.
Le elezioni presidenziali del 2007 hanno però mutato il quadro politico: il partito dei socialdemocratici di Pahor è diventato la seconda forza politica nel paese, e Pahor il leader dell’opposizione di centrosinistra al governo di Janša. Il successo di Pahor è dovuto al suo impegno di proseguire con le privatizzazioni, ma senza smantellare completamente il welfare e aumentando il salario minimo garantito e le pensioni. La vittoria dei socialdemocratici è da attribuirsi anche al timore degli sloveni di veder svanire in un momento di crisi internazionale la prosperità economica e la rete di sicurezza sociale. E Pahor, con le sue promesse sulla crescita dei salari, il contenimento dell’inflazione, la risoluzione di problemi quali le relazioni con i musulmani, i diritti delle donne celibi, i rifugiati e gli immigrati, sembra aver toccato il tasto giusto. Ecco perchè alle elezioni legislative del 2008, Pahor ha vinto sul suo avversario Janša, diventando il nuovo premier sloveno.
Le politiche di distruzione del welfare hanno avuto ripercussioni sulla situazione delle donne in Slovenia. Per Steve Fallon, autore del libro “Lonely Planet Slovenia”, anche se di fronte alla legge slovena le donne godono degli stessi diritti degli uomini permangono, tuttora, delle discriminazioni. Bassa è la percentuale di donne che rivestono ruoli di potere all’interno del governo: 12 membri nel parlamento, cioè poco più del 13%. La Slovenia nel 2006 si è collocata al 68° posto nella classifica di donne presenti nei parlamenti del mondo. La Slovenia è, inoltre, al 51° posto (su 115 paesi coinvolti) nella classifica del Gender Gap Index (sistema che misura la disuguaglianza tra uomini e donne in 4 aree: partecipazione al lavoro e opportunità economiche, scolarità ed educazione, rappresentanza e potere in politica, salute e longevità). Un po’ meglio la situazione nel settore degli affari, dove le donne occupano circa il 20% delle cariche direttive.
Un’indagine di Eurostat del 2007 mostra che il tasso di fecondità nell’Ue a 27 si è stabilito a 1,5 figli per donna. Ma il dato varia tra i vari paesi: è più basso in Grecia, Cechia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, raggiungendo il dato minimo in Polonia (1,24). Inoltre, le donne europee lavorano più dei colleghi uomini. Circa un’ora al giorno in più in Italia, Slovenia, Estonia, Lituania, Spagna e Ungheria. Il divario è più profondo in Germania e Belgio, con una cifra che si aggira intorno alle sei ore lavorative superiori rispetto agli uomini, e in Lituania e Slovenia, dove le donne lavorano ben otto ore al giorno in più. Le donne di Italia, paesi Baltici, Slovenia, Ungheria e Spagna dedicano anche più tempo al lavoro domestico (“oltre 5 ore al giorno” contro “meno di 4 ore”) e lavorano complessivamente più ore al giorno rispetto alle altre europee (sommando ore retribuite e ore non retribuite). Consequenziale il dato relativo al tempo libero medio giornaliero. Le donne ne hanno meno degli uomini: la differenzia spazia dai 20 minuti in Svezia ai 60 minuti in Slovenia.
Preoccupante è la retorica che serpeggia nel paese contro le minoranze. Janša, dopo uno scontro a fuoco a Dolenjska, nel 2003, che ha visto coinvolti i rom, ha condannato la violenza della comunità rom senza spiegarne le cause. Zmago Jelinčič, leader del partito nazionale sloveno, ha umiliato pubblicamente i rappresentanti della comunità rom e ha chiesto al ministro degli Interni che la polizia sorvegliasse da vicino i rom. Un recente sondaggio della Ce rileva come le popolazioni rom in Slovenia stiano subendo un grave deterioramento della qualità della vita. Le politiche di esclusione hanno un postulato di partenza: suscitare nella società un senso di paura rispetto a ciò che è diverso. Intanto, il divario tra ricchi e poveri è cresciuto enormemente. Il rischio di povertà è molto alto, soprattutto tra le donne anziane. In Slovenia, il tasso di povertà della popolazione anziana femminile è almeno due volte più elevato, rispetto alla media europea, di quello maschile (Eurostat, 2006). È facile comprendere come alcuni politici di destra abbiano cavalcato il populismo. I progressisti sono in difficoltà di fronte ad una massa sempre più dimenticata e indignata. Lo schiaffo referendario ricevuto sulla modifica della legge del ministro della Sanità Keber (noto per il passaggio da un sistema di contributi volontari non statali ad uno obbligatorio) per estendere anche alle donne single la possibilità di ricorrere all’inseminazione artificiale è ancora fresco nelle loro memorie, così come la mancata promessa di adottare una legge sull’unione tra omosessuali.
Certamente, unioni omosessuali, rom, donne celibi e coppie senza prole, sono questioni ben distinte. Tuttavia, sono state ravvicinate dal referendum sui “cancellati”. Chi sono i cancellati? Sono le 18mila persone provenienti da Croazia, Bosnia Erzegovina e Serbia, residenti da anni in Slovenia, che all’indomani dell’indipendenza si sono ritrovate prive di cittadinanza e dei diritti che ne conseguono. Al referendum del 2004, solo il 4% si è dichiarato contro l’annullamento della “legge tecnica sui cancellati”, introdotta per ridare a queste persone cittadinanza e diritti.
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