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Addio vecchie certezze

Addio vecchie certezze

Grecia - Prima parte del viaggio di ‘noidonne’ nel paese che, con l’urto della crisi, ha fatto tremare l’intera Europa

Cristina Carpinelli Lunedi, 19/07/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2010

Nel gennaio 1981 la Grecia faceva il suo ingresso nella Comunità Europea (oggi Unione Europea). Le elezioni furono allora vinte dal Movimento Socialista Panellenico (Pasok) di G. Andreas Papandreou, che diede vita al primo governo socialista greco. Il Pasok promise la chiusura delle basi aeree statunitensi e l’uscita dalla NATO della Grecia, che vi aveva aderito nel 1951. Sei anni dopo, tuttavia, queste promesse non erano state ancora mantenute. Nel paese, inoltre, il tasso di disoccupazione restava elevato e nel campo dell’istruzione e dei servizi sociali le riforme intraprese erano state assai modeste. Certo, la condizione delle donne era migliorata: il sistema della dote era stato abolito, l’aborto era divenuto legale ed erano stati introdotti il matrimonio civile e il divorzio.

Nel 1988, quando il Pasok rimase invischiato in uno scandalo finanziario che coinvolgeva anche la Banca di Creta, scoppiò una crisi di governo. Nel luglio 1989 subentrò una coalizione di conservatori e comunisti, con lo scopo di mettere in atto una katharsis (campagna d’epurazione) e chiarire i retroscena dello scandalo. Le indagini terminarono nel gennaio 1992 con la piena assoluzione di Papandreou. Le elezioni del 1990 avevano, tuttavia, riportato al potere la ND (Nuova Democrazia) con Konstantinos Mitsotakis come primo ministro. Il suo governo, a causa dell’inflazione elevata e dell’alta spesa pubblica, impose drastiche misure di austerità, tra cui il blocco degli stipendi dei dipendenti pubblici e uno smisurato aumento del costo dei servizi essenziali. Non stupisce, quindi, che già intorno alla metà del 1993 il governo di Mitsotakis avesse perso la fiducia dei suoi cittadini e che nell’ottobre di quello stesso anno il Pasok di Andreas Papandreou avesse riconquistato il potere. Dopo la scomparsa di Papandreou (1996), fu eletto come primo ministro Costas Simitis. Nei primi anni di governo, Simitis si era concentrato su una maggiore integrazione della Grecia in Europa, introducendo una nuova riforma tributaria e nuove misure di austerità. Nonostante questo avesse provocato manifestazioni di protesta nel paese, le elezioni dell’aprile 2000 lo riconfermarono al potere per altri quattro anni. All’inizio del 2001 la Grecia aveva raggiunto l’obiettivo di entrare nei paesi dell’euro e nel marzo 2002 adottava la moneta unica.

Alle elezioni dell’aprile 2004, la popolazione greca premiava la destra, riportando il vecchio leader di ND Konstantinos Karamanlis alla carica di primo ministro. Sul fronte politico, i primi anni del 2000 si caratterizzarono per una distensione nei rapporti della Grecia con i suoi vicini, in particolare con la Turchia. Karamanlis si era adoperato per stemperare le tensioni diplomatiche sorte con il suo vicino orientale. La c.d. “politica del rischio calcolato”, che spesso in passato aveva portato gli eserciti dei due paesi a scontrarsi, sembrava essere stata abbandonata. Dal punto di vista economico, nel 2005 la Grecia si presentava come uno stato europeo con un’economia sviluppata, seppure ancora in evoluzione. Lo standard di vita era in netto miglioramento, anche se si doveva, tuttavia, controbilanciare un’inflazione in costante aumento, a cui si cercò di porre rimedio con la stretta creditizia. Questa politica portò sempre più greci di reddito medio e basso ad indebitarsi: note sono le espropriazioni di automobili e persino di case per inadempienza nei pagamenti. Un drastico cambiamento rispetto agli anni novanta, quando i greci evitavano di contrarre debiti.

Per quanto riguarda, invece, la condizione della donna, nonostante fossero state varate leggi specifiche fin dal 1980, intese a creare le condizioni necessarie per le pari opportunità, le statistiche disponibili mostravano una situazione insoddisfacente. Ad esempio, i dati relativi al tasso di partecipazione femminile alla vita lavorativa, resi noti dall’ufficio di statistica dell’Unione Europea (Eurostat) e aggiornati al 2002, evidenziavano che la quota di donne impiegate nel lavoro era del 42,7%. La Grecia si classificava al penultimo posto, prima dell’Italia e dopo la Spagna. Un livello tra i più bassi in Europa. Questo dato, del resto, caratterizzava tutti i paesi dell’Europa mediterranea e, dunque, anche la penisola ellenica, dove la tradizione era molto radicata, riservando alla donna un ruolo fondamentale all’interno della famiglia come moglie e madre. Dal 1981 la Grecia aveva attivamente promosso quello che era stato definito un processo di “formalismo legale” per promuovere l'uguaglianza di genere. Questo aveva significato, ad esempio, che le donne erano state le principali beneficiarie della crescita dell’impiego pubblico. Contemporaneamente quest’ultime entravano sempre più nel sistema educativo, con il risultato che nelle coorti d’età più giovani esse rappresentavano la maggioranza dei laureati. La forte ondata migratoria degli anni Novanta nella penisola ellenica aveva immesso lavoratrici immigrate principalmente nel lavoro domestico e di cura, consentendo a molte donne greche di abbandonare il lavoro di casa non retribuito e di entrare nel mercato del lavoro. Questi sviluppi erano stati rapidi. Ciononostante, permaneva in Grecia il problema della forte concentrazione della disoccupazione tra le giovani donne e una persistenza del gap salariale. Inoltre, il sistema di protezione sociale era ancora fortemente congegnato allo scopo di agevolare le pensioni, in particolare quelle delle donne, che “beneficiavano” di un’età pensionabile molto bassa. Le politiche attive del lavoro a favore delle donne erano state finanziate in gran parte attraverso i fondi strutturali europei. Tali politiche, insieme con i servizi sociali, erano state tuttavia sottoposte a influenze contraddittorie: da una parte, subivano la contrazione della finanza pubblica che nel tempo sarebbe stata ancora di più ridimensionata, dato che i tagli sarebbero avvenuti secondo lo schema “last in, first out” (le pensioni non sarebbero state tagliate, mentre probabilmente sarebbero stati abbandonati i nuovi programmi di sostegno alla famiglia), dall’altra parte, però, una delle armi che il governo avrebbe potuto usare per difendersi dalla crisi era quella di accelerare l’utilizzo efficace dei fondi strutturali europei. Finora i fondi strutturali erano stati considerati come una mucca da mungere a fini diversi e non sempre leciti, con scarsa attenzione ai risultati e all’efficacia. I fondi strutturali della Comunità Europea avrebbero, invece, potuto essere rivolti al sostegno della finanza pubblica e della stabilizzazione del paese. Questo tipo di investimento, che costituiva la spina dorsale della fuoriuscita del paese dalla crisi, avrebbe permesso di stimolare la competitività, la crescita economica, al riparo, inoltre, da qualunque accusa di discriminazione a favore di settori e/o gruppi sociali particolari.

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, esso presentava, nei primi anni duemila, uno scenario poco rassicurante. Una donna su ogni quattro occupate, vedeva il proprio stipendio ridotto in termini monetari, pur non dovendo affrontare licenziamenti, dato che secondo le leggi in vigore esse godevano di protezione lavorativa. Poche donne tra i 40 e i 50 anni d’età avrebbero visto alzarsi la loro età pensionabile (ancora oggi l’età pensionabile non può aumentare per le donne comprese in questa fascia d’età, che godono di pregressi diritti acquisiti). Diversamente per quelle sotto i quaranta, che presumibilmente sarebbero state negli anni a venire sottoposte ad un regime previdenziale molto meno generoso. L’incertezza, a causa della seria recessione economica del paese, stava producendo un aumento di richieste di pensionamento. Ciò significava che più donne pensionate sarebbero state alla ricerca di un lavoro sussidiario, e sempre più donne avrebbero dovuto fare i conti con pensioni molto basse. Visto, inoltre, che le assunzioni rischiavano il congelamento, ci si aspettava la formazione di lunghe file di giovani donne qualificate in attesa di un lavoro. Per quelle che, invece, erano già immesse nel mercato del lavoro lo scenario risultava ancora più pesante. Esse avrebbero vissuto contemporaneamente licenziamenti e tagli. Infine, se la ripresa puntava ad una politica di lotta all’evasione fiscale, questo avrebbe significato che gran parte delle piccole imprese familiari sarebbero state ristrutturate e/o chiuse con gravi conseguenze sulle assunzioni e l’impiego. In particolare, molte donne migranti che svolgevano lavori domestici in nero sarebbero state le ultime a beneficiare di budget familiari sempre più compressi (continua).

 



(19 luglio 2010)

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