Addio a Jacqueline Risset: la scrittrice che ha fatto conoscere la Divina Commedia ai francesi
Addio alla scrittrice Jacqueline Risset, l'intellettuale e italianista innamorata di Roma che ha tradotto Dante Alighieri per la Flammarion e ha fatto conoscere all'Italia i saggi di George Bataille e Sollers
Domenica, 07/09/2014 - Addio a Jacqueline Risset: la scrittrice e italianista innamorata di Roma che ha fatto conoscere la Divina Commedia ai francesi
“Era nata a Besancon, ma Roma l’aveva scelta con la passione di chi si stupisce che questo sentimento non sia universale”, così esordisce Paolo Fallai sul Corriere della Sera, nel ricordare Jacqueline Risset, scomparsa lo scorso 3 settembre. Vere e comprovate le sue parole, in un’intervista che mi aveva concesso qualche anno fa mi aveva parlato proprio di questo, del fascino che esercitava su di lei questa città, misteriosa e imprevedibile come una foresta, dove aveva scelto di vivere preferendola a Parigi. Jacqueline è stata una grande intellettuale, italianista, poeta, saggista. Ha tradotto per la Flammarion “La Divina Commedia”, per farla conoscere ai francesi. Ai lettori italiani ha fatto invece conoscere i libri di Philippe Sollers, i poeti di “Tel Quel”, opere come “Il dialogo incompiuto tra Bataille e Sartre”. E’ stata amica di grandi intellettuali come Roland Barthes. Per tanti anni a Roma è stata direttrice del Centro di Studi Italo-Francesi, e dal 1976 professore ordinario di Letteratura Francese per il DAMS, all’Università degli Studi Roma Tre. I suoi corsi, che anch’io ho frequentato come studentessa, erano affollatissimi. Catturava l’attenzione degli studenti mostrando come la letteratura, quella vera, non fosse una cosa lontana dalla realtà, un mondo a sé, disgiunto dalla vita o dalle altre arti, dalla filosofia o anche dalla scienza. Affascinante, coltissima affabulatrice: apriva le menti di tutti noi. Ci mancherà, mancherà a tanti, a Roma e non solo. La ricordo così, nell’incontro fatto nella sua bella casa nell’antico quartiere Esquilino nell'aprile del 1999, tra gli innumerevoli libri e in compagnia degli amatissimi gatti, che non ci perdevano d’occhio durante l’intervista. Mi raccontava che uno di loro, Pamino, il soriano nero, suonava il pianoforte.*
Incontro con Jacqueline Risset: l’illuminazione e la sacralità della letteratura.
In un luminoso appartamento nel suggestivo quartiere Esquilino, circondata da libri e oggetti che testimoniano un grande amore per i viaggi, con quattro splendidi e amatissimi gatti, vive la scrittrice Jacqueline Risset, che ha scelto la capitale come patria d’elezione.
Perché ha scelto di vivere a Roma, città amata da altri scrittori francesi come Sthendhal e Apollinaire?
"L’ho scelta perché è un’anti-Parigi. Perché anche se amo molto la mia patria d’origine, ho sempre sentito il bisogno di confrontarmi con due poli opposti. Parigi è la città che corrisponde alla mia infanzia, ai miei studi, la città dove ho avuto i primi incontri intellettuali importanti. Roma, per contro, è il ritrovato contatto con la natura e con la naturalezza della gente: nel mio immaginario è una “città foresta”. Mi è indispensabile la sua luminosità, così come la sua architettura. Solo qui vedo tangibilmente il passato dell’umanità che si accumula, che agisce stratificandosi, come una rivelazione continua. E’ un arricchimento necessario per scrivere, che non trovo in nessun’altra parte del mondo. Solo qui convivono la città classica, quella medioevale, quella barocca e quella moderna, a volte con accostamenti azzardati. Non rinuncerei mai alla magìa delle sue piazze. Le piazze italiane sono momenti fondamentali della storia. Sono diverse dalle piazze francesi, ideate nel nome del potere per trasmetterne l’idea al popolo. Quelle italiane sono i luoghi della comunità ideale. Eppoi ammiro l’umanità della gente, priva di formalità, qui più che in altre città. L’idea dell’Italia per me è strettamente legata all’idea di umanità, e all’esperienza della sinistra".
A quale idea di sinistra si riferisce?
"Sono venuta a vivere in Italia quando c’era ancora il Partito Comunista. Per i giovani intellettuali era un punto di riferimento, anche per noi francesi, già prima del '68. Per me la lettura di Gramsci è stata fondamentale. Oggi i nuovi esponenti politici hanno dimenticato l’insegnamento che viene dalla memoria storica. Forse gli artisti, più che i politici oggi, o anche i veri intellettuali, sono in grado di trasmettere alle nuove generazioni questa memoria. Anche attraverso la partecipazione attiva a un evento artistico".
La fruizione di un’opera d’arte, musicale, letteraria, pittorica, può essere recepita con la stessa intensità da parte di tutti, pubblico e lettori, di qualunque estrazione sociale?
"Certamente. Mi viene in mente un esempio legato alla scrittura poetica, ad Amelia Rosselli in particolare. Amelia era una diretta testimone di eventi storici drammatici, che l’avevano segnata per tutta la vita, come l’uccisione del padre da parte dei fascisti. Eppure con i suoi occhi d’artista era in grado di percepire e rimandare agli altri la realtà, in modo emozionale, immediato, visivo, con la sua poesia. La scrittura è un’espressione artistica formidabile per trasmettere emozioni".
Come forma d’arte, può essere condizionata e legata a un momento storico contingente?
"Si, ma senza alcun obbligo. Il concetto di impegno in questo senso è una falsa nozione. Sono d’accordo con George Bataille, che affermava che impegno e letteratura sono nello stesso rapporto dei contrari: la letteratura è assoluta libertà, esplorazione dell’ignoto. Uno scrittore non può prefiggersi doveri a priori nello scrivere. Certamente possono esserci momenti nella vita di coincidenza totale, ma in maniera fluida, secondo una necessità personale. Credo per esempio nella capacità degli scrittori di percepire le problematiche del reale più velocemente e in anticipo sui politici".
Allora auspicherebbe che si desse potere politico agli intellettuali?
"No, anche perché i veri intellettuali non vogliono il potere politico. Il loro è un ruolo trasversale, di osservatori, e anche di punti di riferimento per la gente".
Tuttavia le contingenze storiche, così come l’ambiente, influiscono sulla scrittura...
"Più che di influenza parlerei di 'intertestualità'. Citerei Balzac che mi sembra molto inerente: 'Non sono i tempi a influenzare lo scrittore, semmai è lo scrittore a influenzare i tempi, in quanto in grado di anticiparli con la visione illuminata e distaccata delle cose'”.
C’è stato un incontro particolarmente significativo nella sua vita di scrittrice?
"Tanti, ma in particolare quello con Roland Barthes, che ho conosciuto quando collaboravo con la rivista 'Tel Quel'. Quello che mi piaceva dei nostri incontri era che si parlava di scrittura come qualcosa di indipendente, che apparteneva solo a noi. Erano gli anni sessanta, un periodo contrassegnato dalla ricerca di un nuovo linguaggio letterario. Quelli della mia generazione ritenevano che il romanzo fosse finito con Marcel Proust. A me sembrava assurdo anche aderire alla corrente del nouveau roman, mi era più congeniale il racconto, frammentato e contaminato dal linguaggio poetico".
Un po’ come nella scrittura di Marguerite Duras?
"La Duras è comunque ritenuta una delle maggiori esponenti del nouveau roman. Ma la sua scrittura è indissolubilmente legata alla sua esperienza, e non è possibile imitarla. Può essere paragonata a certi generi letterari espressi anche attraverso il cinema, come per “L’anno scorso a Mariembad” o all’opera “Drame” di Sollers. Il suo è un linguaggio in bilico tra prosa e poesia che può essere rappresentato in teatro o al cinema, un tipo di letteratura perfettamente ascrivibile ai nostri tempi".
Il linguaggio poetico consente una maggiore libertà di espressione e sperimentazione allo scrittore?
"Si, anche se personalmente adesso sento la necessità di riavvicinarmi alla prosa. La poesia è qualcosa di formidabile, in grado di tirar fuori l’essenza delle cose: sono gli istanti di vita che si riesce a catturare, come in uno scatto fotografico".
In 'Amor di lontano', la sua ultima raccolta poetica, è evidente una ricerca linguistica basata sulla sintesi e la sonorità.
"Quando ho scritto Amour de loin ho voluto rifarmi alla sonorità musicale dei trovatori. E ho subito l’influenza di Dante, su cui stavo contemporaneamente lavorando nella traduzione del Paradiso. Mi sono avvicinata a Dante attraverso una lettura soggettiva e relativista. Penso che proprio perché oggi viviamo in una realtà frammentata e senza Dio, possiamo avvicinarci a lui senza aver paura della sua complessità".
Si tratterebbe di una sorta di ricerca mistica?
"Tutta la grande letteratura è mistica, per l’inquietudine, la ricerca del superamento del limite, l’esplorazione dell’animo umano. E nella poesia tutto questo si riflette".
Lei scrive indifferentemente in francese e in italiano. Ha il vantaggio di poter tradurre le sue stesse poesie. Può essere un modo per rendere più fedelmente certe sensazioni?
"Non ha senso parlare di fedeltà nella traduzione. Scrivere poesie in madrelingua e poi tradurle è un’esperienza strana, a volte dolorosa. E’ una vera riscrittura: la traduzione è comunque un salto nel vuoto. Per me è ancora difficile scrivere direttamente in italiano, però a volte sogno in italiano, che è una lingua che amo moltissimo, ma che mi è ancora vagamente estranea".
Siamo circondati da gatti che ci osservano con circospezione. C’entrano i gatti con la scrittura?
"Mi aiutano a concentrarmi, e come diceva Baudelaire: 'Creano i rapporti con gli spazi e i deserti della mente'. Hanno legami con lo spazio, il tempo, l’intensità del momento".
Oltre ai gatti, ci sono regole o metodi che l’agevolano nello scrivere?
"L’ispirazione, come anche la traduzione, richiedono un ritmo che consenta di entrare in sintonia con il testo. E’ necessario però che ciascuno individui e rispetti i propri ritmi, quelli biologici e quelli della scrittura. L’obbligo è sempre deleterio, non bisognerebbe mai scrivere a comando, anche se a volte ci sono date e consegne da rispettare. Si può pianificare quando si scrive un articolo, un saggio, ma non un racconto, una poesia. Quando posso, preferisco scrivere in un luogo aperto, a contatto con la natura, ma non sempre è possibile, soprattutto in inverno".
So che le stanno molto a cuore le sorti di scrittori e intellettuali perseguitati dai regimi o minacciati dagli estremisti religiosi, come nel caso di Rushdie, per cui si è battuta. In Algeria nell’ultimo decennio sono stati uccisi più di 59 tra scrittori, musicisti, giornalisti. Cosa si potrebbe fare per evitare questi delitti?
"Sono cose intollerabili, assurde, che succedono ancora come mille anni fa in tutto il mondo. I Governi secondo me non fanno abbastanza, e il modo giusto per arginare queste cose non è certo l’embargo, da parte dei paesi occidentali verso quelli orientali per esempio. Gli estremismi, i fanatismi religiosi, proliferano nella miseria, strumentalizzano i poveri. E in questo l’occidente, con i disastri portati dal colonialismo ha molte colpe. Le dittature poi perseguitano gli scrittori dai tempi di Omero, perché la scrittura proprio per la sua esistenza, attraverso il racconto, il teatro, la poesia, ha sempre negato la tirannide, incitando i cittadini a ribellarsi alle ingiustizie. La scrittura è una vera e propria arma, può condizionare o incitare gli animi, far riflettere sull’autodeterminazione, sul concetto di libertà. E’ quello che attraverso la sua opera faceva anche Dante Alighieri".
A proposito di Alighieri, ultimamente ha pubblicato un romanzo biografico: “Dante, una vita”.
"Sono contenta di questo lavoro pubblicato adesso anche in Francia. A breve uscirà anche un altro libro: “I disegni di Sandro Botticelli per illustrare la Divina Commedia”, che mi ha consentito di rimanere nell’atmosfera di fascinazione dantesca. Ho scoperto un Botticelli realista, in perfetta sintonia con Dante, tutt’altro da quell’artista edulcorato più vicino ai Preraffaelliti che è nell’immaginario collettivo. I suoi disegni fanno apparire persino noiosi quelli di Gustave Doré".
Altri progetti futuri?
"Un saggio sul sonno nella letteratura. Mi ha sempre affascinato il sonno, questo luogo-non luogo. Un mistero biologico che è parte integrante della nostra vita, e ci trasporta in un sito indefinito. Il saggio sarà un insieme di considerazioni, anche esperienze autobiografiche, citazioni dalla letteratura, e i diversi approcci tra cultura occidentale e orientale. Il sonno è una realtà ancora inspiegabile per la scienza: è insieme assenza, e contrario dell’assenza. Ha la radice comune con sogno, in latino: somnus e somnium. E’ un viaggio che ci conduce ogni notte nel mistero delle nostre origini".
Cos’è il sonno per Jacqueline Risset?
"E’ un momento trasgressivo, legato a ricordi dell’infanzia. Un modo per ritrovare le origini, uno stacco dalla realtà, magari vegliato da qualche divinità felina, come racconta il mito egizio".
Sul divano, dove siamo sedute durante l’intervista, il gatto Pamino come chiamato in causa da quella affermazione, apre un solo occhio e ci degna di uno sbadiglio. Forse i gatti sono davvero i custodi di questo mistero. Il registratore intanto ha smesso di girare. Lo spengo, mentre lo sguardo si sofferma attratto dalla copertina di “Amor di lontano”, che la Risset mi ha donato con dedica: “Non mi hai toccato ancora/ amor passa per gli occhi/ e scende nel cuore/ amor di lontano/ ci esercita/ e perfeziona/ ma chi potrebbe ora toccarmi/ se non tu?”.
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*Questa è una delle sette interviste ad altrettante scrittrici (Natalia Ginzburg, Dacia Maraini, Sahar Khalifa, Anita Desai, Joyce Carol Oates, Jacqueline Risset, Alda Merini) pubblicate nella raccolta "Se scrivere potesse dire" di Alma D'Addario. Il libro, pubblicato per la Selene Edizioni con la prefazione di Sandra Petrignani, è esaurito.
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