Intervista a Michela Murgia - In sardo ‘accabadora’ è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. È lei l'ultima madre
Benassi Luca Mercoledi, 13/01/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2010
“Accabadora”, l’ultimo romanzo di Michela Murgia pubblicato da Einaudi, racconta le vicende di Maria, presa con sé da Tzia Bonaria come fili’e anima (figlia d’anima). Accanto alla bambina che cresce e diventa donna, l’anziana cuce vestiti per gli abitanti dell’immaginario paese di Soreni, nella Sardegna degli anni Cinquanta, e la notte esce per il misterioso servizio dell’accabadora: “«Acabar», in spagnolo, significa finire e in sardo «accabadora» è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. È lei l'ultima madre.” Con un scrittura tesa, a tratti ruvida, ma venata di un lirismo incandescente, Michela Murgia narra la storia di una donna e di una terra.
Nel romanzo emergono due tematiche di rilevanza civile, l’eutanasia e l’adozione, viste attraverso la lente di una società, quella sarda degli anni ‘50, in bilico fra tradizioni arcaiche e modernità. In che modo fa emergere queste due tematiche?
Evitando come la peste di trattare il linguaggio come arredo etnico e senza la forzatura di una narrazione a tesi. Che l’accabadora sia antesignana dell’eutanasista io non lo penso, e anzi lo discuto. Credo invece che fosse parte di una percezione della maternità molto più ampia di quanto non siamo disposti ad interpretare noi oggi nel nostro contesto, che funzionalizza le fasi della vita per relegare ai margini quelle meno economicamente produttive. Vecchi, malati, bambini, madri… la mutazione genetica del nostro modo di stare al mondo ha fatto sì che questi aspetti della normalità umana si tramutassero in condizioni di emarginazione. Nel libro io racconto una storia che si ferma un attimo prima che questo avvenga.
Nella sua circolarità il romanzo sembra proporre nascite moltiplicate: la maternità naturale, l’adozione, la morte come liberazione attraverso la figura dell’accabadora, l’ultima madre. Vi è una “quarta nascita”: la determinazione di Maria, decisa a lasciare la Sardegna e abbandonare parte del suo passato. Concorda con questa definizione di “nascita” ulteriore? Che significato ha per lei? Per la protagonista che vive nella società sarda degli anni ’50?
Direi meglio che si passa di morte in morte, e nel romanzo del resto è Maria stessa ad affermare di starsi facendo “accabadora” del suo passato. La morte è più interessante della nascita, perché ti costringe a fare i conti con un percorso già fatto, davanti al quale nessuno può invocare innocenze o inconsapevolezze. La nascita invece ha il suo senso nel futuro, e davanti al futuro siamo tutti come gattini ciechi, irresponsabili e ignari. Credo che la morte porti in sé la più feconda delle emozioni umane sul piano del senso: la percezione feroce del non ritorno, che impone la sfida a fare i conti con quello che resta. Un gioco per adulti, senza dubbio.
Le protagoniste di questo romanzo scelgono, decidono, adottano, partono, ritornano, danno la vita e la morte. I personaggi maschili sembrano essere vittime di un destino ineluttabile al quale non possono sottrarsi.
È vero, e rispecchia il contesto sociale sardo degli anni ‘50, dove se l’uomo era depositario del “fatto”, la donna lo era del “senso”. In una società rurale come quella che racconto, il maschio aveva pochissimi modelli di virilità rispettata a cui adeguarsi, tutti pratici, mentre la donna poteva travalicare i compiti di madre e di sposa per intepretare altri ruoli sociali, tanto pratici quanto sciamanici, vissuti con la naturalezza di un retaggio, e socialmente riconosciuti. Che non fossero comunque entrambi vittime di un destino non posso dirlo, ma di certo alla donna venivano riconosciuti più strumenti per gestirselo.
Il romanzo sembra voler allentare il legame del sangue, facendo intendere la possibilità di maternità che trovano fondamento in una dimensione collettiva. Quante e quali definizioni di maternità sono possibili per lei?
Una sola, quella definita dalla consapevolezza, in qualunque forma si manifesti. La generazione biologica senza consapevolezza rimane un mero accidente uterino, e di conseguenza io guardo con fastidio a tutti i tentativi di definire la maternità - e di conseguenza le donne - come istinto spontaneo dalla pretesa naturalità. Mi ritengo fortunata di provenire da una cultura della cogenitorialità, dove la volontà per secoli è valsa più del sangue, e dietro ogni bambino c’era un paese intero.
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