Mercoledi, 02/05/2012 - Io sono una donna che ha subito abusi sessuali da quello che era il suo terapeuta.
Forse le mie riflessioni vogliono essere un modo poter mettere a frutto ciò che appare sterile, a cercar di cavar fuori dall’inaccettabile, dal mostruoso, perché esula da ciò che dovrebbe avvenire normalmente nella realtà, un che di positivo; testimoniare è un non rassegnarmi al fatto di essere vittima e insieme è anche dire che non devo essere io a vergognarmi per ciò che mi è accaduto, perché è qualcun altro che dovrebbe provare tale sentimento, ammesso che chi compie un’azione del genere sia in grado di vergognarsi.
In me, oltre alla comprensibile rabbia, alberga un profondo senso d’ingiustizia, perché ho l’impressione che, non sempre, gli abusi sessuali commessi da un terapeuta, siano letti, prima di tutto e giustamente, come un crimine contro una persona, anziché come uno “scivolone” professionale.
Abbondano scritti sulla “personalità del terapeuta abusante”, ma alle vittime non giova sapere se chi le ha violate avesse o no una madre “deprivante” o un disturbo narcisistico della personalità -sembrano quasi delle scuse, delle giustificazioni e l’abusante come tali spesso le usa- possono giusto chiedersi come possa essere accaduto che una persona con tali problemi non risolti abbia potuto accedere a una professione così delicata senza che chi fosse addetto alla sua preparazione se ne possa essere accorto, almeno io me lo sono chiesta e ancora me lo chiedo, stupita.
Nel mio caso, va detto, che colui che avrebbe dovuto curarmi ha usufruito, per essere iscritto all’ordine degli psicologi/psicoterapeuti, della sanatoria (cosa di cui non ero assolutamente stata informata) che, evidentemente, fu davvero a maglie troppo larghe come alcuni paventavano all’epoca della stessa. Aggiungo che nella sua homepage si trova scritto che è laureato in psicologia, anche se ciò non è vero, fatto confermato dall’ordine che dovrebbe anche avergli segnalato di provvedere alle dovute modifiche, non effettuate, perciò è evidente che per lui i pazienti sono solo esseri da raggirare, di cui abusare e da truffare e che, ciò che mi ha fatto, l’ha lasciato completamente indifferente o, al limite, solo più sicuro di poter fare tutto ciò che vuole restando impunito.
A chi sostiene che trattasi soprattutto di un problema deontologico, mi permetto dire che è, principalmente e primariamente, un problema ontologico, perché la violenza di un abuso sessuale è rivolta verso un essere, un essere che si trova in una condizione di bisogno, che, invece di cure, riceve una ferita, una nuova ferita, inflitta dall’interno e all’interno del proprio essere, perché in terapia si dischiude la propria anima, la propria intimità. Par quasi che ancora non sia stato recepito che la violenza sessuale è un reato contro la persona, non contro la morale pubblica!
Bollare l’abuso in terapia come una “mascalzonata” potrebbe dar adito a confusione, il termine può essere equivocato ed essere inteso come sinonimo di una marachella, quasi come se si parlasse dell’azione di un bambino inconsapevole e un po’ discolo, come se si volesse liquidare la cosa con un’amichevole pacca sulla spalla. Bisogna essere precisi, l’abuso sessuale è uno stupro - le cose vanno chiamate con il loro nome- è un atto d’indefinibile bassezza e quando lo si compie fra le pareti di uno studio -luogo che dovrebbe essere “protetto” e protettivo per il paziente- non è meno vile di quando è consumato per le strade buie di una città o nella stazione deserta di una metropolitana, forse, ammesso che si possa definire una scala di esecrabilità in tali azioni, è ancora peggiore, perché chi è violato si fida del suo aggressore, ripone in lui fiducia piena. Credo che per qualcuno possa apparire rassicurante che sia possibile identificare uno stupratore fra la folla con i criteri fisiognomici lombrosiani, ma non è così, esso (non vedo perché usare egli) può avere un aspetto rassicurante, modi garbati e gentili, frequentare teatri e mostre di pittura.
Provate a sentire ciò che ne pensa la vittima, provate a chiederle se vive ciò che ha subito come il “banale scivolone professionale” del terapeuta, troverete in lei, in me, l’enorme confusione che si ha di fronte a un inaspettato vulnus, profondamente doloroso, inferto da qualcuno cui ci si era affidati totalmente.
L’abuso sessuale in terapia è un delitto, è una violenza sessuale, è un reato penale, per cui si procede d’ufficio, poiché l’abusante agisce nell’esercizio delle proprie funzioni, ma raramente le vittime lo denunciano perché sono manipolate dal loro stupratore, che addossa loro la colpa del suo crimine, dicendo che magari sono state seduttive; perché è immensamente difficile riuscire a pensare che nei successivi dieci anni della propria vita si rivivrà l’accaduto in un’aula di tribunale (iter disumano che accomuna tutte le vittime di violenza), fronteggiando un essere che non si fa nessuno scrupolo a mentire e a raggirare gli altri; perché i sei mesi di tempo entro i quali si può sporgere denuncia dopo che il reato è stato commesso sono troppo pochi perché chi ha subito un abuso riesca a rendersi conto dell’accaduto e ad agire di conseguenza. Ecco, sarebbe necessario che la legge fosse ripensata, proprio per tutte quelle donne che, come me, hanno subito violenza, che fossero prolungati i tempi, non più solo sei mesi, tenendo conto proprio del difficile percorso, lungo e penoso, che la vittima si trova ad affrontare e perché i criminali, sarebbe bello e giusto, non dovrebbero mai avere la strada spianata e la possibilità di compiere nuovamente certe nefandezze.
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