E' visitabile fino al 6 settembre 2024 presso il Complesso di Santa Maria in Gradi la mostra ideata da Maria Andaloro a partire dal ritrovamento delle immagini di una scena tagliata del film di Pasolini
Qualche giorno fa quando arrivo a Santa Maria in Gradi, sede dell’Università della Tuscia a Viterbo, è molto presto e un bel sole filtra all’interno del suggestivo chiostro medievale.
Ogni cosa è inondata da insolita grazia. Le foto sospese nella galleria della mostra fotografica “Medea ritrovata. Fra la Cappadocia e la Tuscia con Pasolini e Maria Callas” ideata da Maria Andaloro ed a cura di Maria Andaloro, Gaetano Alfano, Paola Pogliani e Valeria Valentini, ondeggiano lievi all’interno di uno dei chiostri, suggerendo quello che sarà un viaggio a metri da terra. Sono come stregata: qualcosa mi dice che c’è un’epifania da cogliere, da attraversare.
Il cuore pulsante della mostra è, letteralmente, un ritrovamento: immagini di una scena tagliata della Medea, film scritto e diretto da Pasolini nel 1969, di cui si accorge la Prof.ssa emerita Maria Andaloro già Prof.ssa ordinaria di Storia dell'arte bizantina e Storia dell'arte medievale presso l'Università della Tuscia, alla guida della Missione di ricerca e restauro dell’Università della Tuscia in Cappadocia, che da anni rende possibile la proficua connessione tra i due territori.
La mostra inaugurata giovedì 9 maggio origina dall’esposizione “Parlami, Terra!” Medea in Cappadocia con Pasolini e Maria Callas (Göreme, Uçhisar, 10 settembre – 10 novembre 2022) anch’essa ideata da Maria Andaloro e a cura di Maria Andaloro, Salvatore Schirmo e Gaetano Alfano, realizzata dalla Missione Unitus “Ricerche e restauro in Cappadocia” con l’Istituto Italiano di Cultura di Istanbul in occasione del centenario di Pier Paolo Pasolini che girò proprio in Cappadocia il film Medea nel 1969, quello che senza dubbio, come vedremo, sarà il film più autobiografico del regista da un punto di vista della sua trasmissione ideologica.
Colgo che un’armonia misteriosa emerge dai pannelli esposti nata da molti aspetti che si compenetrano e Medea è una figura troppo cara alla mia genealogia, decido perciò di parlarne con la Professoressa Andaloro per provare a restituire la profondità che emerge dalla “camera picta” dell’allestimento. Durante una generosa conversazione telefonica, Andaloro mi rivela i particolari del ritrovamento, quasi un “dissotterramento” di Medea che la Professoressa compie nell’atto del rintracciamento e della ricostruzione della scena insieme al suo team “un tessuto composto all’80% da donne”, mi dice fin da subito che su queste foto il lavoro è stato su vari livelli: riconoscimento del luogo, della scena e del significato. Più volte durante la nostra conversazione avverto come se parte dell’essenza della Medea di Pasolini abbia scelto le “mani” maieutiche di Andaloro per tornare nel mondo con parole non ancora pronunciate.
Durante la ricerca compiuta per la prima mostra, “Parlami Terra!”, Andaloro si accorge che alcune fotografie di scena opera di Mario Tursi, non solo non sono presenti nel film ma che la scena in questione non è girata in Cappadocia ma presso le cascatelle di Fosso Castello a Chia nella Tuscia Viterbese. Andaloro sottolinea l’importanza di questo continuo smottamento tra la Tuscia e la Cappadocia e in questo si coglie quello che a mio avviso è un primo importante aspetto: quello del legame con i luoghi e tra i luoghi. Un legame a cui guardare a partire da un arco di tempo che si origina con le riprese di Pasolini in Cappadocia, in una sorta di identificazione tra il regista e la terra - quasi a richiamare la visceralità ineluttabile del legame tra Medea e la Colchide - e nelle parole di Andaloro “la radice di continuità dell’esperienza straordinaria che ha segnato a vita gli abitanti che hanno vissuto il set” e che ha investito anche il team di ricercatori/trici della Tuscia che quando sono arrivati lì hanno avuto una sorta di mescolanza con il film. Un legame di cui rimane traccia odorosa anche a Chia testimoniata in particolare, dopo 50 anni, da una donna che prese parte all’età di 15 anni nel ruolo di ancella alla scena oggi ritrovata e alla scena del Battesimo ne Il Vangelo secondo Matteo del 1964 girata anch’essa a Chia a riprova anche del profondo sentimento di Pasolini verso il luogo.
Mentre mi muovo lungo il percorso tracciato dalla mostra osservo la postura presente, intensa, della Callas e non so più dove inizia lei e finisce Medea, nella mia mente sovrappongo le due donne e le due storie, qualcosa converge e nulla mai entra in collisione. Medea di Pasolini si trova nella stessa rotta di superamento di quella visione riduttiva e spesso strumentale della tradizione letteraria, e non solo,che da Euripide in poi (anche se esistono diverse versioni del mito) si concentra sulla innominabile colpa della regina della Colchide che recide il legame simbolico con il marito uccidendo la propria prole in preda all’irrazionale struggimento d’amore e consacra le figure di Medea e Giasone l’una come negativa l’altra come positiva. Medea è un’esule che non nasce nell’incavo caldo della culla della civile Grecia, è una “barbara”, che padroneggia la magia, che si nutre del rapporto arcaico delle tradizioni della propria terra, una donna selvaggia che trae forza da una cosmogonia marginale e che mette al mondo figli non completamente greci, non portatori di riconosciuta cittadinanza in una Grecia che la respinge e che, in fondo, non ammette il diverso[1].
Nella mente collettiva è difficile ribaltare la versione dominante del mito e si dovrà aspettare molto prima che interpretazioni alternative puntino di altra luce questo simbolico femminile che incarna Medea, rendendola archetipo anche di una denuncia di razzismo e di xenofobia, forza rivoltosa irrapresentabile contro il potere. In questo senso è da sottolineare come Corrado Alvaro nel 1949, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, immagina la donna contadina e straniera che in La Lunga notte di Medea resiste all’assedio degli abitanti del suo paese di adozione compiendo il folle gesto contro i figli pur di sottrarli alla cieca crudeltà dei paesani o sopra tutti la riscrittura che ci consegna Christa Wolf sulla scia di femminismo e rivendicazioni post-coloniali in Medea. Voci del 1996 dove prende le difese della donna che, respinta dai razzisti corinti, all’indomani del suicidio di Creusa, nuova promessa sposa di Giasone, si accaniscono sui suoi bambini.[2]
Ritornando alla mostra, Andaloro spiega che analizzando con dedizione prima una decina di foto di Mario Tursi, il fotografo di scena di Medea, poi consultando oltre 100 immagini in bianco e nero e 7 a colori sempre di Mario Tursi, riferibili a questa scena e conservate nell’Archivio Enrico Appetito, si è arrivati all’individuazione del soggetto e la composizione, ricostruito i nuclei tematici poi assemblati e, infine, ‘rimontati in sequenza”. È molto emozionante ascoltare come la curatrice abbia dissotterrato questa scena lavorando a partire dalle immagini come storica dell’arte avvezza ed esperta con le tessere del mosaico. La scena “ritrovata” ha come soggetto un sacrificio umano, in particolare, un’uccisione rituale alla Luna. Solo che qui, per la prima e unica volta, la Colchide non ha le fattezze aspre e potenti della Cappadocia ma eccezionalmente quelle elegiache, anzi ‘ariostesche’ delle Cascatelle di Fosso Castello a Chia, nella Tuscia viterbese. Tagliata dal montaggio finale del film, condotto da Nino Baragli e dallo stesso Pasolini, non sono noti ritagli di pellicola che la riguardino”.
La consultazione, poi, del Diario manoscritto di Beatrice Banfi, segretaria di edizione del film Medea (Il Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna), ha provato la conformità dei nuclei e della sequenza individuati a quelli delle riprese e confermato l’identificazione della scena “ritrovata” con la scena 14 del Trattamento. Andaloro spiega come al cuore di uno dei nuclei tematici della scena, quello della danza rituale che segue il sacrificio, si possa intravedere il prototipo di quelle tardomedievali e rinascimentali con echi del Buon Governo del Lorenzetti e del Parnaso di Mantegna, dove si dispiega “il grande immaginario figurativo di Pasolini, pittore implicito nei film, che regala immagini straordinarie come nel caso di questa scena, bella e allo stesso tempo misteriosa”. Scena sulla quale l’esperta si mette a lavorare “poiché le immagini erano come delle tessere”, a partire dall’intuizione della presenza di due donne diverse sulla scena: una che incarna la vittima del sacrificio l’altra la luna. Pasolini, secondo Andaloro, fa un’azione ardita scegliendo di rappresentare un sacrificio umano che è l’anima della scena, un’opera intellettualmente difficile, complessa e coraggiosa, mettendolo al cuore del mondo sacrale arcaico/agricolo dove il sacrificio umano era visto come accettabile e salvifico. La scena “ritrovata” dell’uccisione rituale alla luna, con una connotazione tutta al femminile del rito, è nettamente diversa dalle altre due scene terrificanti ed esplicite di sacrificio umano: quella relativa allo strangolamento nella prima parte del film e quella della visione di Medea, scena girata ma mai montata, in cui si consuma una decapitazione. É in questa scena rituale, “piena di grazia e che gioca tra la filologia e il senso globale delle cose” che Pasolini, attraverso il carisma di Maria Callas nelle vesti di Medea, tributa qualcosa di prezioso al femminile. Non c’è violenza in questo rituale, l’uccisione rituale si svolge infatti in quello che è “il paesaggio più bello al mondo” c’è armonia, una componente corale, delicata, la vittima viene accompagnata, c’è identificazione tra la vittima e la luna, in nessun momento si vede la decapitazione (che forse non è avvenuta), “è come se Pasolini volesse dire che c’è un altro modo del sacrificio, forse quello cristiano del martirio, contrapposto a quello cruento ed efferato al quale la contemporaneità non può non opporsi”. Una scena luminosa che accresce in quella che è la pellicola più autobiografica del regista nel senso ideologico, dove Pier Paolo Pasolini esprime all’ennesima potenza quello che è il dissidio fra i due mondi: quello di Medea arcaico, contadino, sacrale, del valore, antico, plebeo e quello di Giasone desacralizzato, razionale, moderno, borghese; vedendo in Medea quel polo positivo utopico, capace, straniera a Corinto che si vuole riappropriare dell’orizzonte vitale della terra, nelle parole di Pier Paolo Pasolini “Medea è l’eroina di un mondo sottoproletario, arcaico, religioso”.
Sarà possibile godere della mostra fino al 6 settembre 2024 presso il Complesso di Santa Maria in Gradi a Viterbo, un’esperienza che consiglio di fare perché densa di contenuti e significati che in queste righe è stato impossibile rappresentare.
Valentina Muià
Esperta e formatrice in Studi di Genere
Referente Cultura e Reti Cav Universitari, CAV Unituscia Ponte Donna
[1]Nell’ambito della sezione dell’AthenaionPoliteia aristotelica dedicata alla politica periclea viene menzionata la legge, di cui Pericle fu proponente, che stabiliva l’accesso alla cittadinanza ad Atene ai soli nati da genitori entrambi ateniesi (451/0 a.C.). Euripide intende mostrare le conseguenze tragiche che potevano derivare dalla legge periclea del 451 a.c.
“Andare a letto con una barbara non comportava per te una vecchiaia gloriosa” Medea, Euripide.
[2]Secondo il trattamento come di Pausania, Medea non avrebbe infatti ucciso i figli, ma sarebbero stati i corinzi a farlo, perché i bambini avevano portato a Creusa i doni incendiari della loro madre, ovvero una corona e un peplo avvelenati. Non solo. Dietro le mosse dei corinzi si nasconderebbero altre ragioni, fondamentali nella comprensione della leggenda di Medea: il rifiuto della diversità.
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