Venerdi, 19/06/2020 - A spasso, il racconto di Matilde Tortora
Ho lanciato passi come fossero fendenti, sentivo d’essere in competizione con il pavimento come fosse il mio passo una sfida. A che, non so dirlo, ma facevo i miei passi di prammatica, principiavo un percorso. Ogni giorno. Da allora fino a qui. E, con coscienza, ogni giorno lo portavo a termine.
Tutti badano costantemente all’incipit, ce ne sono di celeberrimi di incipit di romanzi famosi, e pure incipit di poesie altrettanto famose: “Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, altri che tuttora a volte distrattamente ci vengono a mente e ripetiamo a memoria quali “t’amo pio bove”, appresi sui banchi a scuola.
L’anno che mi fu detto a scuola di imparare a memoria questo verso e tutti i versi che ad esso facevano seguito, sentii per caso bisbigliare dalle compagne grandi “ha messo il carro davanti ai buoi” a proposito della giovane che veniva in convitto a dare una mano nelle incombenze in cucina alla cuoca.
Per giorni guardai di sottecchi la giovane e non mi capacitavo di che cosa le grandi avevano bisbigliato, del suo significato cioè, non ravvisando alcunché in comune tra Rita, questo era il suo nome e il verso della poesia del Carducci.
Dissero, mesi dopo, che Rita si era dovuto sposare.
A quei tempi ci portavano il sabato, potendo fare i compiti l’indomani, a fare lunghe passeggiate che culminavano per lo più alla Sedia del Papa, che era uno slargo erboso, dove sostavamo e potevamo infine consumare il maritozzo per merenda.
Se getto un occhio nella mente, come allora lo gettavo sulla fitta boscaglia che solo all’apparenza avrebbe fermato una nostra caduta nello strapiombo se non ci fossimo mantenute noi tutte ben sedute su quella sedia rupestre, mi sovviene perché si era vociferato che Rita “aveva messo il carro avanti ai buoi”, proprio lì essendosi intrattenuta col suo ragazzo una sera riparata dai rami e dalle foglie.
E mentre addentavo con piacere il maritozzo, pure allora mi chiedevo che ci avesse a che fare la parola dolce e soffice con la parola marito, per l’appunto quello di Rita.
Se l’è spassata - avevo pure sentito bisbigliare alle grandi.
Fendendo in tutti questi tanti giorni il pavimento, come bisce pure potessi incontrare, col desiderio di spazi erbosi, e non potendo uscire di casa, ho ripensato alle tante Rita cui invece è stato precluso oggi di mettere il carro davanti ai buoi e mi sono pure domandata: “come sarà stato il suo matrimonio, come è andata a finire per lei?”.
E così, appresi parole nuove, modi di dire a me del tutto sconosciuti, appresi che un bue lo si potesse amare in poesia e che l’infelicità era comunque in agguato, che forse la giovane gioiosa Rita che a tavola ci dava una mela in più, se gliela chiedevamo, di nascosto dalla cuoca, avrebbe pure potuto incontrare non tanto un carro, non tanto un bue, quanto invece l’infelicità.
Sempre a quel tempo sentivo dire “il futuro riposa sulle ginocchia di Giove”, parendomi che egli avesse uno slargo possente come la Sedia del Papa e che pure io, nel futuro intendo, avrei seduto sulle sue ginocchia.
Quante parole una ragazzina apprendeva allora! Alcune dette a scuola, altre bisbigliate, dunque carpite, altre apprese a memoria!
Mentre appunto fendevo il pavimento in tutti questi giorni e scorgevo bisce in agguato e come la regina di Saba provavo a sollevare il lembo delle vesti, specchiandomi nel lustro pavimento, e dunque credendo fosse acqua da attraversare, ripensavo a tutto questo, davo passi, tanti passi e pure pensavo che se gli incipit sono tanto famosi, occorrerà pure che gli ex-cipit siano, diventino altrettanto importanti, e a fare caso pure a loro, ai finali intendo dire delle storie.
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