A proposito di felicità

Emanuela Irace Domenica, 03/07/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2011

Se anziché essere il risultato di un’etica protestante-calvinista e di una religione ebraico-cristiana le nostre radici culturali si spostassero dall’altra parte del globo, per esempio in Bhutan - piccolo stato himalayano che dal 1970 considera l’indice di felicità dei propri abitanti più importante del Pil - avremmo come modello di riferimento un sistema di valori talmente semplificato da apparire impraticabile allo sguardo occidentale. Vediamo solo ciò che conosciamo e da questa visuale restiamo ancorati alla complessità di un “sistema”, iper intelligente, ma che dimentica l’essenziale. Eudemonia per i greci. Estasi per i mistici. Jihad per i martiri. Il concetto di felicità è tra le declinazioni più ambigue della modernità. Un battito di ciglia. Una menzogna del cuore. Una scoperta inattesa. Un contenuto che entra perfettamente nella forma desiderata. Abituati alle sbavature di colori che escono dalla tela, in nome della democrazia - paradigma dominante in questo momento storico - ne accettiamo le irrinunciabili contraddizioni. Proclamiamo legalità rubando. Inclusione allontanando. Ci scagliamo contro un Oriente che impedisce la costruzione di chiese, accettando che in casa nostra, nello Stato della Città del Vaticano, si impediscano culti estranei alla chiesa cattolica. Aborriamo la tortura lasciando che nelle nostre carceri si torturi. Uccidiamo chi ci contrasta inventando guerre umanitarie. Sempre attenti a quella sottile guerra di posizione che ci mette dalla parte dei giusti restiamo dalla parte delle lobbies che più contano, come ci ha insegnato quella ebraica. E del concetto di felicità non ce ne occupiamo più.