Le controversie sul dress code a scuola potrebbero risolversi laddove l’istituzione scolastica dialoghi direttamente con la comunità studentesca, facendo nel contempo squadra con le famiglie.
Mercoledi, 27/09/2023 - La scorsa settimana Maria D’Alessio, dirigente di un istituto pubblico di istruzione superiore, il P. Leto di Teggiano (Sa), ha emanato una circolare rivolta a chi frequenta da alunno tale scuola, esprimendosi con queste parole. "Si ricorda agli studenti e alle studentesse che il decoro nell’abbigliamento e nella cura della persona fisica costituiscono aspetti significativi del nostro modo di essere e rapportarci con gli altri e che la scuola è un ambiente istituzionale che merita adeguato rispetto”. Nel contempo la preside si è appellata anche ai genitori dei ragazzi, di modo che vigilino "che propri figli si attengano a quanto sopra indicato, nella consapevolezza che, in caso di mancata osservanza, si provvederà all’applicazione delle note disciplinari previste dal Regolamento di Istituto”.
L’Unione degli Studenti del Vallo di Diano, comprensorio territoriale di cui fa parte Teggiano, ha risposto a tale circolare con un comunicato, in cui si può leggere tra l’altro “La scuola, luogo di formazione, dovrebbe essere il primo spazio in cui ci viene insegnato che non siamo ciò che indossiamo, che l’apparenza e il nostro aspetto fisico non ci definiscono necessariamente come persone a meno che non siamo noi a deciderlo. Il rispetto non si costruisce con magliette lunghe, pantaloncini sopra il ginocchio, né quanto meno con le braccia coperte. Il rispetto, reciproco, si costruisce ascoltando le istanze delle studentesse e degli studenti e costruendo momenti di confronto e di espressione”.
Due posizione nettamente contrapposte la cui connotazione si è rispecchiata in eguale modo sui social, dove si sono moltiplicati a dismisura i commenti, favorevoli all’una o l’altra tesi. Con una precipua caratteristica, ossia che su Instagram prevalevano le attestazioni a favore del comunicato degli studenti, mentre su Facebook quelle a supporto della circolare della dirigente scolastica, indubbia conseguenza della diversa tipologia di utenti di tali social. Questa diversificazione di posizioni non fa altro che replicare quanto l'opinione pubblica esprima, ossia le diverse convinzioni di chi, da un lato, sostiene che a scuola si debba tenere un abbigliamento decoroso, ricorrendo, anche, all'uniforme dell'istituto, dall’altro di chi ritiene che la scuola sia il luogo adatto per poter esprimere se stessi e di conseguenza vestirsi come meglio si crede.
D’altronde in mancanza di una normativa nazionale, sono infatti numerose le scuole che non si affidano solo al buon senso, ma decidono di formalizzare il tutto con indicazioni pratiche, generiche come nella circolare in questione, oppure più specifiche, prevedendo un apposito abbigliamento. Skuola.net, una piattaforma online dedicata agli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, ha condotto un’indagine con più di un migliaio di ragazzi riguardo l'argomento dress code. Ne è risultato che solo il 38% dei ragazzi abbia carta bianca sul vestiario scolastico, mentre più del 60% degli studenti dichiara di essersi trovato di fronte a specifici divieti per quanto riguarda l’abbigliamento.
Viene allora da chiedersi quali possano essere le regole più sensate, per dirimere una questione che rischia di dare origine a schiere contrapposte, arroccate sulle proprie posizioni, senza possibilità di trovare una soluzione condivisa. «La premessa è d’obbligo: non c’è nessun moralismo, non ci deve essere, in questo tipo di ragionamenti- spiega Raffaele Mantegazza, pedagogista presso l’università Milano Bicocca- non è che un vestito è migliore di un altro. Ma i vestiti devono essere consoni al contesto, a ciò che si fa: se un giocatore dell’Inter va con la maglia del Milan, non è consono. A scuola si va vestiti in un certo modo perché la scuola valorizza alcuni aspetti che non sono attinenti all’esibizione del corpo, o della moda».
Indubbiamente la questione della legittimità del dress code scolastico si inquadra nel più generale problema della fatica alla reciproca comprensione tra istituzione scolastica e comunità studentesca. Mentre la seconda invoca il rispetto per la propria libertà personale, la prima richiede la considerazione del contesto istituzionale, in base alla quale per ogni ambiente e situazione ci vuole l'abbigliamento adatto. Considerazione che va ben oltre i luoghi scolastici, visto che i nostri adolescenti, una volta inseriti nei vari mondi del lavoro, senza fatica si adatteranno per il loro abbigliamento al contesto, sapendo che, comunque, è un po’ vero che “l’abito fa il monaco”. Compito della scuola è, quindi, anche insegnare ciò che è la sostanza della vita, per il suo vincolo educativo, prima degli apprendimenti vari.
Entra qui in gioco la capacità di dialogare, di capirsi, di darsi una mano, che, al di là degli indirizzi e delle materie, è il cuore pulsante della scuola stessa. Ma, per dialogare in vista di una comprensione reciproca, ci vuole fiducia, ci vuole empatia, ci vuole sensibilità. E il dialogo migliore lo si fa guardandosi negli occhi. Perché non basta la sola individuale intenzione, ma l’intenzione deve farsi strada comune, sentiero condiviso. Per tale motivo sarebbe da consigliare alla dirigente scolastica Maria D’Alessio di andare oltre la burocratica circolare scolastica, di modo da mettere in campo sul tema in questione un confronto leale e corretto con la propria comunità scolastica e di docenti.
Certo il dialogo diventa faticoso quando alle ragioni del vivere in comune, con il conseguente rispetto dei correlati luoghi, si contrappone la libertà. Sapendo che quella quasi istintuale negli adolescenti, si avvale di mille linguaggi ed il corpo è uno di questi. Sta alla scuola fargli comprendere quale delle due opzioni ideali sia la preferibile tra “io sono il mio corpo o io ho il mio corpo”. Avvalendosi in questa operazione culturale anche del gioco di squadra con le famiglie. Non è un caso che i commenti favorevoli alla circolare provengano proprio da persone adulte, presumibilmente genitori, che evidentemente delegano all’istituzione scolastica il compito di insegnare ai loro figli l'abbigliamento adatto alle specifiche situazioni.
La chiave di volta, nella vicenda relativa alla controversia sul dress code, sarebbe conseguentemente nella capacità dell’istituzione scolastica di dialogare direttamente con i ragazzi e le ragazze, facendo nel contempo squadra con le famiglie. Agire insieme per crescere nuove generazioni capaci di leggere le situazioni in cui si trovano, diventa quindi un imperativo categorico. Famiglia e scuola devono necessariamente concertarsi nell'interesse comune di formare figli e studenti in grado di affrontare le prove imposte a loro dalla sorte. Le due più importanti agenzie educative del nostro Paese non possono dismettere a questo ruolo. A pena di crescere adolescenti incapaci di affrontare, e semmai superare, le sfide che il loro contesto sociale d'appartenenza gli fa incontrare nel proprio percorso di vita.
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