Sabato, 25/02/2017 - Le recenti pubblicazioni relative a procedimenti giudiziari, aventi ad oggetto vicende di violenza di genere, sono accomunate da un dato inconfutabile, quale l’incapacità delle istituzioni preposte di rispondere alla fame di giustizia delle donne che ad esse si rivolgono. A leggere pochi giorni fa il caso di Filomena Lamberti, la prima vittima dell’acido muriatico nel nostro Paese, si legge di un marito condannato nel 2012 a soli 18 mesi di detenzione, perché “la giustizia italiana considerò più deplorevole la condotta di maltrattamenti in famiglia piuttosto che quella di lesioni gravi”. Il viso completamente deturpato della donna indusse la Procura della Repubblica di Salerno a tentare di rimediare, ma la Cassazione ha confermato che la condanna è giusta in base al reato contestato, ossia i maltrattamenti familiari. Nonostante che si senta oltraggiata da questa pena così irrisoria, tant’è che ripete spesso” non c’è stata giustizia per me”, Filomena continua ad impegnarsi nel cercare ancora il giusto ristoro per i torti subiti e per i dolori innumerevoli che ha dovuto sopportare dal 2012. Nella solitudine di chi sa di “non avere le spalle forti”, come usa spesso ribadire, si è dedicata a divulgare il suo dramma personale perché diventi esperienza collettiva di contrasto alla violenza di genere.
Il giorno successivo alla pubblicazione dell’articolo sulle vicissitudini giudiziarie di Filomena Lamberti, da Torino arriva un’altra notizia a dir poco raccapricciante. E’ stato prosciolto per intervenuta prescrizione l’uomo che aveva abusato di una bambina di sette anni, figlia della compagna. Sono decorsi inutilmente venti anni senza giungere a sentenza definitiva considerato che il processo, iniziato nel 1997, ha visto nel 2007 una condanna in primo grado a 12 anni di reclusione, ma per i rimanenti fino ad oggi non c’è stata ombra di decisione in secondo grado. Come per il caso di Salerno, il procedimento parte alla Procura di Alessandria con l’accusa di maltrattamenti e violenza sessuale, viene archiviato per la seconda accusa e condannato per la prima. Ma, in contemporanea a tale decisione, si dispone il rinvio degli atti in Procura per violenza sessuale con la conseguenza che la rilevante spendita di tempo, in cui incorre il procedimento giudiziario, comporta che il primo grado si concluda dopo dieci anni. Per l’appello decorrono inutilmente nove anni e si giunge così al 2017, data che consente di applicare la prescrizione del reato. Se a questi particolari si aggiunge che i tempi sono stati accorciati per l’errore di applicare una recidiva inesistente, si può concludere che c’è molto che non torna nella macchina giudiziaria italiana relativamente ai reati di violenza di genere.
Riaffiorano alla memoria note critiche che già nel passato recente avevano riguardato altri casi su cui si erano accesi i riflettori dei media nazionali. Così per il femminicidio di Loredana Colucci, viene alla memoria che per ben tre volte il magistrato aveva rifiutato gli arresti domiciliari all’imputato, provvedimenti richiesti dai pubblici ministeri per il reato di stalking e per il tentato omicidio dell’anno precedente. Come anche per il femminicidio di Enza Avino, si ricorda che il magistrato non aveva concesso gli arresti domiciliari all’incriminato sulla base del “presupposto” che il reo avesse rispettato il divieto di non avvicinarsi alla donna. Sorge, allora, impellente una domanda, proprio alla luce del fil rouge che lega i casi descritti: i magistrati nello specifico delle proprie competenze e più in generale i tempi processuali sono in grado di offrire risposte adeguate alle donne che denunciano i loro aggressori? Probabilmente per i giudici occorrerebbe che siano specializzati in tema di violenza sessuata non fosse altro che per evitare le lungaggini processuali ed in tal senso già nel 2009 il Consiglio Superiore della Magistratura adottò una risoluzione con la quale si raccomandava ai dirigenti degli uffici giudiziari di trattare i procedimenti riguardanti la violenza sulle donne con una specifica priorità.
Certo è che il caso di Torino indurrebbe a dire che tale raccomandazione non è stata tenuta nel debito conto, visto che il procedimento giudiziario è incorso nella prescrizione del reato, imponendo alla bambina divenuta donna la negazione di una giustizia perseguita per vent’anni e l’ulteriore violenza di non vedere punito il suo violentatore. In altri Paesi, come la Spagna, esistono i Juzgados de Violencia sobre la Mujer, dedicati esclusivamente ai reati riconducibili alla violenza sessuata. Nati nel 2003, grazie alla Ley Organica, che negli intenti del governo Zapatero doveva offrire alle donne spagnole un intervento normativo volto a porre un freno a tale fenomeno, questi tribunali hanno come caratteristiche una presenza territoriale radicata ed una specificità della propria sfera d’azione, ossia il contrasto ai reati di violenza contro le donne. Ciò comporta la rapidità delle decisioni al loro riguardo, a cui consegue un maggiore numero di denunce ed una minore incidenza del fenomeno del loro ritiro. In Italia l’ultimo intervento normativo in tema di violenza di genere, ossia la legge 113/2013, prevede tra l’altro l’irrevocabilità della denuncia, l’inasprimento delle pene ed il gratuito patrocinio. Ma tale misure necessitano di essere sostanziate anche da una idonea formazione dei giudici sulla materia della violenza di genere, di modo che in sua presenza essi siano in grado di ben valutare i comportamenti che si configurano come correlate ipotesi di reato.
A tal proposito sovvengono alla mente la parole di Fabio Roia, magistrato che da oltre vent’anni si occupa di tal genere di reati, il quale ha puntualizzato che la cultura sessista è ancora insistentemente imperante tra i giudici. “In molti casi la vittima è anche unico testimone di quanto avvenuto e dunque è molto importante il modo in cui viene raccolta questa testimonianza, e anche che la sua testimonianza sia tenuta affidabile. Invece spesso viene richiesto che la vittima si discolpi da atteggiamenti considerati troppo disinvolti, o da una vita libera, prima di essere creduta. Questo è un paradosso perché mentre la vittima testimonia sotto giuramento, l’imputato non giura e ha diritto di costruirsi una strategia difensiva volta a screditare la vittima”. E sempre lo stesso giudice per il recente passato ha precisato che: ”Il quadro non era poi così confortante perché nella maggior parte dei Tribunali italiani mancava, e manca tuttora, la specializzazione, definibile come una inclinazione del sapere in grado di coniugare preparazione tecnica, sensibilità, capacità di comprendere e di creare empatia con la vittima. Per non parlare della lunghezza dei procedimenti. Non si può fare aspettare anni una donna vittima di violenza prima di pronunciare una sentenza che ne riconosca, sul piano istituzionale, la sofferenza personale vissuta”.
Verrebbe allora da proporre l’istituzione di Tribunali speciali, sulla scorta del modello spagnolo, visto che in questo Paese una donna che denuncia una situazione di violenza è messa al sicuro in meno di 72 ore e che le prime aggressioni vengano punite nel 70% dei casi. La bambina stuprata nel 1997 ora è donna e si è rifiutata di presentarsi al processo che attestava l’avvenuta prescrizione del reato per il suo aguzzino, motivando così la sua decisione: ”Voglio solo dimenticare”. Una scelta personale che rappresenta non solo una ferita nel corpo vivo delle istituzioni, ma anche una sprone a che l’attuale sistema giudiziario per il futuro non continui a mietere tal genere di vittime. Vittime che già abusate da un uomo non debbono essere ulteriormente vessate, nelle more di un processo che non arriva ad equa sentenza e soprattutto di una giustizia che diventa una fallace speranza.
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