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A proposito del dibattito pubblico su violenza di genere e femicidio - di Cristina Karadole*

A proposito del dibattito pubblico su violenza di genere e femicidio - di Cristina Karadole*

Finalmente in Italia si inizia di parlare di femicidio anche sulle prime pagine dei giornali. Una riflessione dalla Casa delle donne per non subire violenza di Bologna

Mercoledi, 09/05/2012 - A proposito del dibattito pubblico su violenza di genere e femicidio



Dopo l’ennesimo caso di femicidio, accaduto questa volta ad Enna, dove una ragazza di 20 anni, Vanessa Scialfa, è stata strangolata dal suo convivente e buttata dal cavalcavia di un ponte, sembra che finalmente anche il mondo della cultura, della politica, del sindacato, nonché i media mainstream, si siano accorti del massacro di donne che si consuma lento e inesorabile nel nostro paese, a partire dall’appello lanciato da Snoq, che ha già ricevuto numerose e illustri adesioni, sino al “Diario” di Repubblica del 3 maggio, curato da Adriano Sofri e itneramente dedicato al femminicidio

Se è vero infatti che ogni due o al massimo tre giorni, la cronaca ci restituisce storie come quelle di Vanessa, di donne che pagano le loro scelte di libertà e di autonomia dal volere dei loro compagni, con la vita, è pure vero che sino ad oggi queste informazioni sono state relegate dalla stampa a qualche colonna nelle pagine che si occupano della cronaca nera, liquidate ad un affare di coppia, ad una relazione andata male e finita in tragedia.

Spesso addirittura questi delitti sono classificati come “delitti passionali”: certa stampa non esita a rispolverare categorie affini al delitto d’onore, bandite dal nostro codice penale nel 1981, per non farsi carico di quello che a tutti gli effetti è un delitto di genere, un delitto che nasce dalle relazioni di potere tra uomini e donne, e dunque attiene alle radici culturali della nostra società.

Una cultura pervasiva che non riconosce alle donne il ruolo di soggetti, di esseri liberi, autonomi e capaci di autodeterminarsi, pretendendo di ricondurle a ruoli e funzioni prestabilite, il cui prezzo da pagare qualora decidano di rompere gli schemi, è ancora altissimo.

L’importanza di nominare gli omicidi di donne e bambine utilizzando il neologismo “femicidio” o “femmicidio”, recentemente criticato per la sua cacofonia o perché richiamerebbe un concetto di “femmina” in senso denigratorio per le donne (Sofri nel citato “Diario” e Isabella Bossi Fedrigotti nel Corriere della Sera del 30 aprilw), è brillantemente chiarita dall’avvocata Barbara Spinelli, che è anche la prima e sola autrice nel nostro paese di un testo scientifico che ricostruisce la categoria sociologica e giuridica di femminicidio, così come si è venuta perfezionando grazie alle battaglie e alle riflessioni di criminologhe e antropologhe femministe sudamericane, come la messicana Marcela Lagarde che ha guidato all’inizio del millennio la commissione speciale parlamentare sui femminicidi nel suo paese .

Come afferma Spinelli, dietro al termine c’è l’esigenza di rendere visibile la non neutralità di questi crimini, la loro dimensione sessuata: la maggior parte di omicidi di donne e bambine infatti, sono omicidi di donne in quanto donne, ossia basati sul genere.

La Casa delle donne per non subire violenza di Bologna ha iniziato a denunciare tutto questo dal 2005, costituendo un gruppo di lavoro che effettua annualmente indagini sulla stampa nazionale e locale per restituire il numero e le caratteristiche dei femicidi, sopperendo alla totale mancanza di dati ufficiali e informazioni su di essi.

Non è un caso che quest’indagine sia partita da un Centro Antiviolenza, né che esso si trovi in Emilia Romagna.

I Centri sono infatti da molto tempo attivi sul terreno della violenza contro le donne, non solo fornendo servizi alle vittime, ma anche investendo molte energie e risorse nella sensibilizzazione sulle tematiche che riguardano la violenza maschile contro le donne, nella consapevolezza che essa nasce da un problema culturale, e che per quanto utile e prezioso sia l’aiuto rivolto alla singola vittima, per combattere la violenza maschile è necessario costruire una cultura di rispetto e riconoscimento della soggettività delle donne.

In questo difficile lavoro i Centri antiviolenza sono stati a lungo lasciati soli, posto che in Italia, a differenza di quanto accade negli altri paesi europei, ma anche nel panorama internazionale, abbiamo constatato sino ad anni recentissimi un totale disinteresse nei confronti della violenza di genere, da parte sia delle istituzioni, che delle università, che del mondo della comunicazione, quasi che essa fosse un problema e una questione che riguarda solo le donne, al più un affare di coppia e privato.

Le nostre ricerche prendono il via da un centro dell’Emilia Romagna, dicevamo, non a caso, essendo una realtà in cui esiste una forte rete di organizzazioni di donne che si occupano di questi temi, con un maggior investimento delle istituzioni rispetto ad altre zone del paese, ma dove esistono anche i tassi più elevati di violenza di genere, come è emerso dall’ultima indagine dell’Istat (2006), e di femicidio (16 casi nel 2011).

Dalle nostre indagini è emerso che in Italia dal 2005 al 2011 sono state uccise 776 donne, e va considerato un dato sottostimato, perché le ricerche si basano solo sui casi riportati dalla stampa e non su dati ufficiali.

Nella gran parte dei casi a commettere femicidio in Italia sono mariti, compagni, conviventi o ex, ma anche figli e padri: uomini con i quali le donne avevano una relazione molto stretta.

Abbiamo registrato inoltre che a commettere i femicidi sono uomini italiani in oltre l’80% dei casi riportati, così come le vittime sono per lo più italiane. Quindi contrariamente a quanto le frequenti campagne contro l’immigrazione vorrebbero asserire, questi delitti non sono riferibili a tradizioni religiose o culturali diverse dalla nostra, le quali al più si intersecano con la matrice culturale patriarcale all’origine dei femicidi, che è comune a tutte le latitudini.

Si tratta evidentemente di un fenomeno di grande rilevanza sociale, dunque non possiamo che accogliere con soddisfazione il fatto che i livelli di interesse intorno ad esso comincino a crescere.

Come dicevamo, da anni ci impegniamo come Centro Antiviolenza per dare visibilità al fenomeno, e con questo intento abbiamo partecipato alla Piattaforma di donne e Associazioni “Lavori in corsa”, che ha presentato lo scorso luglio all’Onu il rapporto ombra sull’implementazione della Cedaw in Italia, coordinato dall’avv. Spinelli e contenente un paragrafo sui femicidi in Italia. Col risultato che il Comitato ha espresso preoccupazione “per l’elevato numero di donne uccise da partner ed ex partner (femminicidi), che può indicare un fallimento delle autorità dello Stato nel proteggere adeguatamente le donne vittime dei loro partner o ex partner”.

Si tratta di una presa di posizione importante, se si considera che è la prima volta che il Comitato Cedaw parla di femminicidio con riferimento a un paese europeo. Così come importante è evidenziare che esiste una responsabilità delle istituzioni, sia nei comportamenti omissivi, per la mancata reazione alla domanda di protezione delle donne che subiscono violenza, sia per quelli attivi, consistenti nel legittimare modelli culturali e comportamenti che discriminano le donne, annullandole nella loro identità e libertà, non soltanto fisicamente, ma anche nella dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione al mondo del lavoro e alla sfera pubblica.

Pertanto pur aderendo all’appello e alla proposta di mobilitazione lanciata da “Se non ora quando”, riteniamo importante che si ponga con forza in evidenza il legame esistente tra i delitti come quello di Enna, che giustamente suscitano forte indignazione, e il fenomeno ancora del tutto invisibile e sicuramente più difficile da accettare e riconoscere della violenza di genere. Come ci dicono alcune ricerche condotte in Europa infatti su 10 femicidi, almeno 7 sono preceduti da violenza di genere.

E la violenza di genere è un tema di grande complessità e pervasività, che richiede di mettere in campo un lavoro ad ampio raggio e duraturo nel tempo, che rifugga qualsiasi logica emergenziale.

Senza polemica auspichiamo pertanto che la lotta al femicidio non abbia a risolversi in uno slogan politico buono per qualche apertura di quotidiano, senza che la violenza contro le donne divenga realmente una priorità nell’agenda politica nazionale, e che per contro in tempi difficili come quelli attuali dovuti alla crisi, si pensi di poter ridurre le risorse destinate ai Centri antiviolenza e alle politiche di contrasto ad essa.

Riteniamo utile e necessaria qualsiasi campagna di educazione pubblica sul tema della violenza contro le donne che sia tale, e che venga costruita mediante la collaborazione tra una vasta gamma di attori, in primis le associazioni di donne, nella quale giochino un ruolo fondamentale proprio i media, tanto spesso responsabili di veicolare immagini stereotipate e degradanti della donna, che alimentano la cultura della violenza.

Essi invece possono diventare efficaci strumenti di divulgazione al pubblico tanto degli strumenti esistenti per prevenire la violenza di genere, quanto di una cultura che non solo non sottovaluti la violenza, ma che la consideri socialmente inaccettabile.



* Cristina Karadole

Casa delle donne per non subire violenza, Bologna

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