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A Marisa Rodano conferita la Laurea Honoris Causa

A Marisa Rodano conferita la Laurea Honoris Causa

L'8 marzo 2013 conferita la Laurea Honoris Causa a Marisa Cinciari Rodano dall'Università di Cassino e del Lazio Meridionale. Pubblichiamo integralmente la Laudatio della Prof.ssa Fiorenza Taricone e il discorso di Marisa Rodano

Sabato, 23/03/2013 - LECTIO MAGISTRALIS UNIVERSITÀ di CASSINO di Marisa Cinciari Rodano

Cassino - 8 marzo 2013




"Desidero innanzitutto ringraziare caldamente il Magnifico Rettore, la Direttrice del Dipartimento, il Senato accademico, la professoressa e cara amica Fiorenza Taricone per l’alto onore che mi è stato riservato con il conferimento di questa laurea honoris causa; tra l’altro sono una studentessa fuori corso dal 1943: non ho mai conseguito la laurea, perché sebbene avessi concluso tutti gli esami, nel maggio di quell’anno, quando venni arrestata dalla polizia fascista per la mia attività contro il regime, le prime stesure della tesi vennero sequestrate. Successivamente, tra clandestinità, partecipazione alla Resistenza e nascita dei figli non sono mai riuscita a laurearmi, neppure nei primi mesi del 1945 quando furono possibili tesi orali.

Mi si consenta di osservare che, nella Laudatio, mi si attribuiscono qualità che non merito: sono stata soltanto molto fortunata per aver vissuto in un periodo storico di grandi speranze, ma anche di significative trasformazioni politiche e sociali, per aver incontrato compagni e compagne di vita e di lotta davvero straordinari. Sono sempre stata convinta che la crescita personale di ciascuna è più frutto del contesto storico che di qualità individuali.

Ringrazio l’Università di Cassino e Lazio Meridionale di aver voluto che questa cerimonia fosse una festa. Ne abbiamo bisogno, perché oggi, ma ci tornerò tra poco, noi donne non abbiamo molti motivi per festeggiare.

Mi si consenta tuttavia di anticipare una considerazione: siamo in mezzo alle macerie, sotto il profilo economico e in presenza di una crisi drammatica della democrazia, del rapporto tra cittadini e istituzioni. C’è stata un’autentica esplosione. Coltivo la speranza - spero non sia un’illusione - che si sia toccato il fondo. Che si sia oggi, pur in una situazione disastrosa, al termine di un ciclo storico. Se così fosse, sarebbe un momento in qualche modo simile - pur tra ovvie diversità - al primo dopoguerra: un momento in cui una nuova generazione, quella dei giovani e delle ragazze, che, anche per colpa nostra, è stata posta ai margini, può entrare in campo e accingersi al compito di costruire su nuove basi un assetto sociale più giusto, liberato da un metodo personalistico di fare politica, caratterizzato anche dalla democrazia paritaria.

Ho ritenuto potesse essere utile, dato che proprio oggi si celebra la “giornata internazionale della donna”, assumere a tema di questa “lectio” proprio le origini e la storia di questa ricorrenza, anche perché parlare dell’8 marzo mi ringiovanisce, mi fa ricordare le innumerevoli celebrazioni che ho tenuto in tanti anni, dalle borgate romane al parlamento europeo o cui ho assistito, dal Consiglio Comunale di Roma all’assemblea generale dell’ONU.

Per quasi 80 anni, è prevalsa una narrazione dell’origine dell’8 marzo, forse nota anche a voi: la data sarebbe stata scelta a ricordo della morte di 129 operaie rinchiuse in una fabbrica di New York e perite nell’incendio dell’opificio l’8 marzo del 1908.

In realtà, si tramandavano varie versioni dell’evento: a volte si parlava di New York, a volte di Chicago, a volte di Boston; a volte di 129 operaie perite nella sciagura, a volte di 146. Ma simili differenze si sarebbero potute far risalire alle inevitabili distorsioni di una tradizione orale.

Dubbi sulla attendibilità dell’origine della giornata hanno cominciato a diffondersi negli anni ottanta. Già nel 1982, due ricercatrici francesi, Liliane Kandel e Francoise Picq (Le mithe des origines a propos de la journee internazionale des femmes)) e nel 1987 Marisa Ombra e Tilde Capomazza ne mettevano in discussione la credibilità. Esse sostennero in un libro, (“8 marzo – storie, miti, riti della giornata internazionale della donna”) sulla scorta di accurate ricerche storiche che il racconto sull’origine della giornata, tramandato dall’UDI e generalmente accettato, sarebbe stato del tutto leggendario: recensendo il libro, L’Unità il 19 febbraio 1987 era uscita con un titolo in prima pagina, “L’8 marzo sparito”, provocando un profluvio di lettere di sconcerto e di protesta.

La loro tesi, la scoperta che la vicenda delle operaie americane morte nel rogo della loro fabbrica l’8 marzo di un anno del novecento non era mai avvenuta o, comunque, non era avvenuta in quella data e in quelle circostanze, appariva però plausibile. In effetti c’era stato un incendio in una fabbrica di abbigliamento femminile, la Triangle Shirtwaist Company, a New York in cui morirono 146 donne, peraltro in gran parte di origine italiana, ma era avvenuto nel marzo 1911. Già prima, nel 1857 a New York sembra che una manifestazione di lavoratrici sarebbe stata brutalmente repressa. E’ possibile che il riferimento alla morte delle operaie a New York, abbia avuto origine da una commistione tra qualche lotta sindacale e un incendio realmente avvenuto nella città statunitense.

In un pregevole volumetto (Otto marzo, la giornata internazionale delle donne in Italia, 2010) Alessandra Gissi sostiene che si dovrebbe, in merito alla vicenda delle lavoratrici perite nell’incendio della fabbrica, far ricorso alla categoria di “invenzione di una tradizione”, nel senso che a tale categoria viene dato da Eric Hobsbawm. (The invention of tradition, Cambridge University press, 1992).

Tuttavia una tradizione “inventata”, costruita sulla narrazione di fatti a metà falsi a metà veri, non è meno robusta di quelle che si riferiscono a fatti storici effettivamente avvenuti.

Già nel 1987, rispondendo all’Unità, avevo portato l’esempio di un’altra tradizione “inventata”. “Poi scendesti dai monti a riportarmi S. Giorgio e il drago” ”inciderti potessi sul palvese/che s’agita alla furia del grecale…” Conoscete sicuramente gli splendidi versi dei “Mottetti” di Montale. Ebbene, non molti anni fa la Chiesa cattolica ha solennemente dichiarato che alcuni santi - e tra questi il patrono della città ligure - non sono mai esistiti. In realtà non ci sarebbe stato bisogno di bolla pontificia per indovinare che il S. Giorgio, soldato sotto Diocleziano, martirizzato nel 303 per aver lacerato l’editto imperiale di persecuzione dei cristiani affisso sulla porta del palazzo di Nicomedia, ma più noto come valoroso cavaliere che aveva liberato una vergine uccidendo un mostruoso dragone (così lo effigia Vittore Carpaccio) non era che l’assunzione nella tradizione cristiana di Perseo che libera la bella Andromeda “legata al nudo scoglio.

S. Giorgio era stato venerato per secoli forse perché nel santo viveva un antichissimo mito e si placava un ancestrale desiderio di liberazione dal “mostro”, dal “drago”, magari rivisitato nell’agiografia cristiana come liberazione dal paganesimo. E che S. Giorgio fosse stato dichiarato leggendario, non impediva al mottetto montaliano di evocare l’identità di Genova o all’Inghilterra di conservare il Santo come simbolo nazionale.

Un processo analogo è avvenuto per l’8 marzo: nell’immaginario femminile si è venuto costruendo, per tradizione orale e alluvioni successive, un episodio carico di simboli:

donne che lavorano in fabbrica, dunque donne che hanno infranto il ruolo e l’immagine tradizionale e rassicurante della moglie-madre-donna che sta in casa;

donne in lotta per i propri diritti e perciò punite dal padrone, maschio, o dal destino, maschio, con la morte;

donne “rinchiuse” e perciò perite nell’incendio: ancora un’immagine carica del simbolismo dell’oppressione sessuale.

La leggenda si è diffusa ed è stata creduta, perché aveva un significato emblematico. E che l’8 marzo si fondi su una leggenda prova che quella giornata scaturisce da qualcosa di molto profondo. Non è la celebrazione di un episodio storico che, nel corso degli anni, si sia via via dilatata sino a comprendere più ampi significati; ma piuttosto l’espressione di un moto, ricco di aspirazioni e di sentimenti, che - maturando in modo diffuso, in luoghi e tempi diversi - ha cercato nel suo corso, e in un processo di unificazione, di fissarsi su un episodio e su una data. E’ una prova di più, se ce ne fosse stato bisogno, che il movimento di liberazione del sesso femminile è una grande ondata di fondo, di significato storico, epocale.

Solo, infatti, tali profondi rivolgimenti producono leggenda. E quando la leggenda si afferma, diviene motore che smuove coscienze, scalda i cuori, innesca iniziative, essa è più forte della verità storica.



2. Quale è l’origine vera delle celebrazioni dell’8 marzo? La giornata della donna è nata negli Stati Uniti, a Chicago, il 3 maggio 1908 ad iniziativa delle donne socialiste americane. A partire dal 1909, il “Woman’s day”, fissato per l’ultima domenica di febbraio, come manifestazione per il diritto delle donne al voto, si era celebrato in varie parti degli Stati Uniti e nel 1910, a pratica consolidata, le socialiste americane si erano recate a Copenaghen alla Conferenza internazionale delle donne socialiste col mandato di proporre l’istituzione di una giornata internazionale delle donne per il diritto al voto. La proposta fu ripresa e rilanciata dalla femminista e dirigente del partito socialdemocratico tedesco, Clara Zetkin, la quale propose che le donne socialiste di tutti i paesi organizzassero la celebrazione, in collaborazione con le organizzazioni politiche e sindacali, con l’obiettivo immediato di ottenere il diritto di voto; la Conferenza approvò la proposta e malgrado, come riferisce anche la storica Franca Pieroni Bortolotti, (Socialismo e questione femminile in Italia, 1974) fosse scarso l’entusiasmo dei partiti socialisti per il suffragio femminile, la celebrazione si venne estendendo in molti paesi in date varie, tutte collocate all’inizio della primavera, tra febbraio e marzo. La giornata venne celebrata a Parigi, a Berlino, a Vienna, a Dusseldorf, in numerose città dell’Olanda e della Svizzera tra il 1911 e il 1914; di particolare rilievo la celebrazione a Berlino del 1914, alla vigilia della “settimana rossa” e, tre anni più tardi, la famosa manifestazione delle operaie di Pietrogrado, l’8 marzo del 1917, (23 febbraio secondo il calendario gregoriano) che darà il via alla rivoluzione di febbraio, e che è narrata dalla famosa rivoluzionaria russa, forse più nota perché sostenitrice del libero amore, Alessandra Kollontaj.

Proprio questo evento, considerato l’origine della giornata, ha provocato il divampare delle polemiche. Si è supposto che, con la “leggenda” delle lavoratrici perite nell’incendio di New York, si fosse voluta “staccare la giornata internazionale della donna dalla sua storia sovietica”, (cioè dalla rivolta delle lavoratrici di Pietrogrado) per rendere così la giornata, in tempi di “guerra fredda” più presentabile all’opinione occidentale.

Lo storico Piero Melograni, ad esempio, ha sostenuto che l’episodio della rivolta di Pietrogrado sarebbe stato “rimosso”, volutamente dimenticato, perché le “organizzazioni femminili” avrebbero supinamente accettato una “retorica comunista” la quale non avrebbe dato valore alla rivoluzione di febbraio perché la vera rivoluzione russa sarebbe soltanto quella bolscevica d’Ottobre ( ! ).

Considero l’illazione (e dispiace che sia uno storico a farla) infondata. Sarebbe come se, parlando della rivoluzione francese del 1789, si negasse che la convocazione della Convenzione fosse figlia del Giuramento della Pallacorda. Va peraltro osservato che in Italia dove lo storicismo ha molto pesato, il PCI ha sempre visto la rivoluzione russa come un processo e, dunque, la rivoluzione di febbraio come quella che ha posto le basi per l’abbattimento del regime zarista e ha consentito, poi, ai bolscevichi, nel 1917 l’assalto al Palazzo d’Inverno.

L’episodio di Pietrogrado, tra l’altro, era tutt’altro che rimosso. Anche io ne parlavo nelle iniziative dell’8 marzo, proprio a sostegno della tesi che quella giornata era stata occasione di lotte in cui le donne erano divenute protagoniste di svolte storiche. Oppresse, sì, le donne ma capaci di divenire protagoniste: a questi due poli si ancorava il significato della giornata.

Perché, allora, si faceva riferimento alle operaie americane morte nell’incendio della loro fabbrica? Ma, molto semplicemente, perché allora s’ignorava che l’episodio di New York fosse una leggenda.



3. Oggi la giornata viene celebrata in ogni parte del mondo.

Tralascio per brevità di soffermarmi sulla storia della celebrazione in Italia nei primi decenni del novecento.

Non si ha notizia di celebrazioni dell’8 marzo nel primo decennio del novecento forse anche per le aspre polemiche interne al PSI sul suffragio femminile – sono note le discussioni in proposito tra Turati e Anna Kuliscioff -. Nel marzo del 1921, all’indomani della scissione di Livorno, il Comitato delle donne comuniste (Rita Montagnana, Camilla Ravera, Felicita Ferrero e Elvira Zocca) accusa il partito socialista di aver sabotato la celebrazione della giornata; nel 1922 risultano celebrazioni in alcuni comuni del Piemonte. Ovviamente con l’avvento del fascismo, la giornata, considerata manifestazione eversiva, non venne più celebrata.

Un’altra dirigente delle donne comuniste, Teresa Noce, forse più nota col nome di battaglia di Estella, racconta nella sua autobiografia (“Rivoluzionaria professionale”1974) che vi furono tentativi nel 1931 di diffusione nelle fabbriche tessili del biellese di volantini clandestini sulla giornata. Ma è soprattutto significativo l’episodio, rimasto poco noto, dell’8 marzo nel campo di lavoro forzato in una fabbrica di munizioni a Hollenshein nella Cecoslovacchia occupata dalla Germania, dove Estella era stata trasferita dai nazisti dopo il suo arresto, nel 1943, nella Francia occupata e la deportazione nel campo di concentramento di Ravensbruck. Teresa Noce racconta: “Per l’8 marzo non potevamo organizzare una festa, perché eravamo ormai troppo deboli e affamate, quindi decidemmo di tenere una conferenza …. L’incarico fu dato a me.” Estella poi ricorda che alcune avrebbero voluto riservarla alle comuniste, o quanto meno, alle deportate politiche e che Lei si era opposta risolutamente, perché tra le deportate oltre alle comuniste e alle socialiste c’erano cattoliche ed ebree, operaie che conoscevano la lotta di classe, ma anche contadine, proprietarie di terre, impiegate e funzionarie pubbliche. Si doveva perciò a suo avviso parlare di Lucrezia e di Giovanna d’Arco, delle serve della gleba, delle comunarde di Parigi….Si può dire che sia la prima volta che la celebrazione dell’8 marzo si stacca dalla sua origine classista e tende a rivolgersi alle donne in generale.

Ma penso che vada ricordata, del periodo bellico, soprattutto la manifestazione delle donne torinesi contro la fame e la guerra a piazza Castello l’8 marzo del 1943, da cui hanno preso avvio nei giorni seguenti, in Piemonte e a Milano, quegli scioperi che hanno suonato la campana a morto per il regime di Mussolini.

Iniziative di lotta nella giornata dell’8 marzo si svolgono, durante la Resistenza e la guerra di liberazione nazionale, a opera dei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà (GDD, l’organizzazione clandestina delle donne riconosciuta dal Comitato di Liberazione Nazionale).

All’indomani della liberazione, su iniziativa dell‘Unione Donne Italiane, la giornata viene rilanciata. La prima celebrazione a Roma – rammento – ebbe luogo nell’aula magna del Liceo Visconti l’8 marzo del 1945, prima della fine della guerra nel nord Italia, avvenuta il 25 aprile.

Per noi, giovani uscite dalla Resistenza, l’8 marzo era una assoluta novità. Del movimento femminile e femminista italiano e internazionale di prima del fascismo non sapevamo nulla: il regime fascista aveva operato una totale cancellazione.

L’UDI voleva che le donne potessero considerare l’8 marzo la loro festa, come lo era il Primo maggio per i lavoratori: di conseguenza iniziò a rivendicare mezza giornata libera per le lavoratrici, suggerì agli uomini di fare regali alle mogli, alle figlie, alle fidanzate, ai bambini di portare fiori alla propria insegnante, ai sindaci di rivolgere un augurio e un ringraziamento alle proprie dipendenti, alle socie dell’UDI di organizzare rinfreschi nei circoli o di andar fuori a cena, senza gli uomini, con le amiche; chiese ai negozi di esporre nelle vetrine locandine che invitavano ad acquistare regali per le donne, alle elette di ricordare la giornata nelle assemblee elettive.

Ma l’8 marzo fu anche occasione di cortei, sit-in, comizi, giornata di manifestazione e di lotta, non più per il diritto di voto, conquistato dalle donne italiane nel gennaio 1945, ma per il diritto al lavoro, la parità di retribuzione, la tutela delle lavoratrici madri, l’accesso alle carriere, compresa la magistratura, la polizia, l’esercito, il divieto di licenziamento per matrimonio, la legge di tutela del lavoro a domicilio e via via per i servizi sociali, l’obbligo scolastico fino a 15 anni, il piano nazionale degli asili nido, i consultori, la scuola materna pubblica, la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, la depenalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza, la legge contro la violenza sessuale e la violenza in famiglia, i congedi parentali: obiettivi tutti raggiunti.

L’8 marzo è stato, dunque, in pari tempo, giornata di rivendicazione e di lotta e giornata di festa, un appuntamento centrale nella storia dell’UDI e, sebbene anche la Cgil organizzasse iniziative per la ricorrenza, soprattutto dentro i luoghi di lavoro, la giornata ha coinvolto non solo le lavoratrici delle fabbriche e degli uffici, ma contadine, casalinghe, studentesse, insegnanti, professioniste, commercianti, artigiane.



4. A questo punto mi si consentirà di raccontare come e perché si pervenne, alla scelta della mimosa come fiore della Giornata Internazionale della donna.

Secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stata l’onorevole Teresa Mattei, nota per essere stata deputata alla Costituente, ad aver pensato di fare della mimosa il fiore simbolo dell’8 marzo quando, durante la resistenza, militava nei GDD (“Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà”). Ma in proposito esistono diverse vulgate: l’onorevole Lina Fibbi, militante e dirigente delle donne del PCI e, successivamente segretaria del sindacato tessili, afferma che l’idea di scegliere quel fiore sarebbe stata dell’onorevole Luigi Longo, dirigente del Comitato di liberazione dell’alta Italia (CLNAI); che, durante la resistenza, l’8 marzo la mimosa sarebbe stata deposta sulle lapidi dei caduti e che i nazisti se ne fossero accorti. Tale versione però sembra improbabile: è possibile che ciò sia potuto accadere in Liguria, ma non sembra credibile che durante la guerra, e sotto i massicci bombardamenti, la mimosa venisse importata in Piemonte o in Lombardia.

Può darsi che la mimosa abbia una dop¬pia maternità (o paternità...) o addirittura una maternità molteplice. Ricordo che in una riunione del Comitato Direttivo Nazionale dell’UDI nelle sale di palazzo Giustiniani, prima provvisoria sede dell’associazione, forse nella primavera del ’45 (oppure, più probabilmente, in occasione dell’8 marzo 1946, il primo che si celebrava nell’Italia ormai libera) venne discussa la opportunità di scegliere un fiore per l’8 marzo: «Come a Parigi il primo maggio si distribuiscono i mughetti» – disse la onorevole Giuliana Nenni, che era stata a lungo in esilio in Francia. Scartato il garofano, già legato al 1o maggio, esclusi gli anemoni perché troppo costosi, la mimosa sembrava convin¬cente, perché, almeno nei dintorni di Roma, fioriva abbondante e poteva esser raccolta sulle piante che crescevano selvatiche. Esiste nell’Archivio dell’UDI copia della circolare diretta ai Comitati provinciali dell’associazione per informarli della scelta, sulla quale io stessa avevo disegnato un appros¬simativo rametto di mimosa con l’apposito punteruolo, che incideva la cera, sul cliché, che serviva a riprodurre le copie al ciclostile. (non esistevano allora fotocopiatrici).

Non so se fu scelta felice, se non per i coltivatori liguri, per i quali nel corso degli anni si sarebbe aperto un imprevisto mercato. Nel Lazio e nel sud, infatti, dove la pianta cresce spontanea, sovente fiorisce assai prima dell’8 marzo. Mi venga consentito un ricordo personale. Quando ero dirigente dell’UDI di Roma, ne face¬vamo venire quintali da Sanremo: oltretutto i chicchi erano più grossi, più intensi di colore, più profumati. Ma trasportare decine e decine di ceste per tre piani di scale – nel vecchio palazzo di via Torre Argentina dove avevamo la sede non c’era ascensore – e trascorrere intere giornate a dividerla e a farne mazzetti era penoso: dopo qualche ora l’odore diveniva insopportabile e il polline che si diffondeva nelle stanze provo¬cava un prurito insostenibile. In quei giorni mi sarei ben guardata dal rivendicare con le mie compagne di sventura dell’UDI di Roma la co-maternità di quella scelta.

Singolare quanto scrive Alfredo Cattabiani nel Florario alla voce Mimosa: «La mimosa, che in botanica è chiamata acacia dealbata, è stata introdotta dalla Tasmania in Europa all’inizio del secolo scorso [1800, n.d.r.]. [...] La scelta [di adottare la mimosa come fiore dell’8 marzo] fu scelta felice anche simbolicamente perché la mimosa indica il passaggio dalla morte a uno stato di luce nella Luce. È un simbolismo comune a tutte le acacie che hanno rappresentato l’idea della resurrezione nelle religioni precristiane e il Cristo resuscitato nelle Chiese primitive di Oriente e dell’Egitto: caratteristica che si ritrova nelle società ermetiche del Medioevo e della Massoneria [...]. È dunque un emblema di Rinascita, di Vittoria; ma essendo una pianta eccezionalmente vitale e robusta nonostante il suo aspetto fragile, potrebbe evocare anche l’energia “celata” della femminilità».

Come si vede sulla mimosa si è molto almanaccato e, invece le ragioni della scelta furono essenzialmente pratiche!

l’UDI si adoperò per distribuire la mimosa in tutte le possibili sedi. Nel 1952, ad esempio, convincemmo Giuseppe Di Vittorio, (eletto consigliere comunale di Roma) ad andare personalmente in giro per gli uffici comunali a offrire la mimosa alle dipendenti, persuase che neppure le più accanite democristiane avrebbero rifiutato un omaggio che veniva dal Segretario generale della CGIL, noto e stimato anche per le sue battaglie in favore dei lavoratori del pubblico impiego.



5. In Italia, la Giornata Internazionale della Donna, tra molti alti e bassi, si è affermata, ha contagiato ambienti, associazioni, movimenti diversi, pur non essendo mai stata riconosciuta, a differenza del primo maggio, come giornata festiva.

La celebrazione dell’8 marzo rimase, infatti, per molti anni, quelli della “guerra fredda, della contrapposizione tra mondo occidentale e la cosiddetta area socialista, oggetto di polemica e di contrasto: considerata dai governi a direzione DC una iniziativa delle sinistre, dell’opposizione, ostacolata in tutti i modi anche facendo intervenire le forze dell’ordine. All’epoca, la mimosa veniva considerata poco meno che un simbolo sovversivo. Se ne vietava la diffusione nelle strade, nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Spesso le donne dell’UDI che offrivano quel fiore giallo e profumato venivano fermate e denunciate dalla polizia e i pericolosi mazzetti venivano sequestrati.

Col mutare della situazione politica, la giornata dell’8 marzo venne dapprima tollerata e poi, giocoforza, ammessa, giacché, durante gli anni del centrosinistra c’era un partito di governo, il PSI, che, essendone stato l’inventore, la celebrava.…Poco alla volta la festa dell’8 marzo, con connessa mimosa, è stata accettata da tutte le forze femminili organizzate, di ogni orientamento, anche dalle donne delle ACLI, della DC e dalle associazioni femminili cattoliche: un’anomalia italiana, che testimonia l’influenza esercitata dall’UDI. Infatti, ancora negli anni ’80, - mi si consenta un altro ricordo personale - avendo io proposto di celebrare l’8 marzo al Parlamento Europeo, una mia collega tedesca della CDU , Marlene Lenz, ebbe a rispondermi, indignata: “Ma è una festa della DDR , una festa comunista!” In Italia, iniziative per l’8 marzo venivano già organizzate persino dalle donne dell’Azione Cattolica…

Negli anni ruggenti dopo il ‘70, l’8 marzo fu caratterizzato dai grandi cortei dei movimenti femministi e delle studentesse delle scuole. Nel «decennio di piombo» – a riprova dell’universalità assunta dall’8 marzo - ho visto persino sfilare nei cortei ragazze con la mimosa in petto e le dita piegate nel segno della P38. In seguito hanno celebrato la giornata, a modo loro, anche le donne di estrema destra, persino quelle del MSI.

Ma quando la giornata internazionale della donna è divenuta di tutti, ha avuto inizio – come era inevitabile – la contestazione. Si cominciò, da parte di aree femministe, ma anche di donne intellettuali di sinistra a dire: “Aboliamo l’8 marzo, aboliamo la mimosa….Perché solo una giornata per le donne? Vogliamo che sia otto marzo tutto l’anno…”.

Negli ultimi decenni del novecento la “spinta propulsiva” dell’8 marzo sembrava esaurita: perché? Da un lato perché il suo carattere politico, il suo contenuto di lotta erano indeboliti nel momento in cui l’8 marzo era diventato un’occasione o un pretesto per rivolgersi alle donne dai più diversi pulpiti e spesso con opposti scopi; dall’altro per la crescente frammentazione dei movimenti delle donne.

Ma anche perché, purtroppo, la giornata era divenuta consumistica, una ricorrenza come S. Valentino o la festa della mamma: regalini confezionati con la mimosa, scatole di cioccolatini, decorate di mimosa, esposte nelle vetrine, ristoranti che propagandavano la “cena dell’8 marzo”, extracomunitari che vendevano mazzetti di mimosa ai semafori…. Si è persino, talora, sconfinato nella volgarità: feste nelle balere, spogliarelli maschili…. Questa distorsione non è stata colpa dei movimenti delle donne; è il mercato che si appropria di tutto: si è appropriato del Natale, della Pasqua, del Primo Maggio, non poteva non appropriarsi anche dell’8 marzo.

Tuttavia, anche nei primi anni del nuovo millennio, e anche oggi, non sono mancate manifestazioni e iniziative consone al suo carattere e alla sua tradizione.

Il già citato libro di Alessandra Gissi si chiude con un interrogativo: ha senso, oggi, l’8 Marzo? Interrogativo, in Italia, all’indomani delle recenti elezioni più che mai valido. Oggi, per la prima volta nella storia abbiamo più del 25% di donne in Parlamento. Ma il risultato si deve più a un processo di cooptazione da parte dei vertici –maschili – delle formazioni politiche, (anche se in alcuni casi si sono praticate elezioni primarie, o raccolta di candidature sul web) che a una reale forza delle donne.

Il che è confermato dai risultati non buoni delle donne nelle elezioni regionali, dove gli elettori disponevano di una preferenza per scegliere gli eletti: nel Lazio, ad esempio sono pochissime.

Ma che senso ha l’8 marzo per le tante elette giovani e giovanissime dei diversi schieramenti, una ricorrenza che ha più di cento anni? Le donne italiane hanno ancora bisogno di un appuntamento annuale di lotta?

E, soprattutto, quali sono le condizioni reali delle donne nella società italiana? Siamo, infatti, in una situazione contraddittoria.

Oggi le donne sono presenti e attive nella società, nelle professioni, nell’attività economica, nell’informazione, nelle università. Ma su di esse grava, se non il doppio lavoro, quantomeno la difficoltà di conciliare attività professionale e cura della famiglia; si trovano, inoltre dover operare in un clima di pregiudizio negativo, per cui bisogna dimostrare di essere più brave dei maschi (si veda il bel libro di Paola Di Nicola, “La giudice”); e di doverlo dimostrare in un assetto sociale (orari e tempi di lavoro, organizzazione degli studi, della ricerca, dell’attività lavorativa) pensato per uomini, che hanno alle spalle donne che provvedono ai compiti della sopravvivenza.

Non esiste ancora una vera democrazia paritaria.

Le ragazze studiano di più, sono più brave, conseguono la laurea in meno anni dei maschi e con votazioni più alte; ma giunte alla fine del corso degli studi, non sfondano: nelle università restano in ruoli precari e talora non retribuiti.

La percentuale di donne che hanno un lavoro extradomestico retribuito è tra le più basse dell’Unione Europea.

Inoltre da qualche decennio le donne sono vittime di un grave contrattacco. Le loro conquiste sono minacciate (si pensi alle vicende della procreazione assistita o della pillola Ru) o sono inesigibili.

La precarietà nel rapporto di lavoro vanifica le leggi sul divieto di licenziamento per matrimonio e persino sulla tutela delle lavoratrici madri; rende difficile programmare una famiglia, un rapporto di coppia, una maternità. Ne consegue, per le donne, una frustrazione sistematica del desiderio di maternità e del diritto all’autodeterminazione.

I tagli ai bilanci degli enti locali colpiscono i nidi, le scuole per l’infanzia, il tempo pieno nella scuola; la crisi economica scoppiata nel 2008, e le misure di rigore assunte dal governo Monti hanno colpito particolarmente le donne.

Pensiamo alla tragica situazione di tante lavoratrici anziane senza lavoro e senza pensione o alla condizione di vita delle pensionate che “godono” - si fa per dire - della pensione sociale.

E’ da chiedersi poi se la violenza maschile contro le donne, soprattutto nell’ambito domestico, il numero mostruoso di femminicidi non indichi una reazione contro la loro nuova collocazione e libertà, un tentativo di riaffermare la signoria e il potere maschile.

Nel corso dell’ultima legislatura sono stati adottati solo tre provvedimenti legislativi a favore delle donne (la legge sulla doppia preferenza per le elezioni amministrative, la legge sulla presenza delle donne nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa e la legge sul reato di stalking) e solo quest’ultima per iniziativa del governo.

Sono cambiati i rapporti interpersonali tra i sessi e le donne manifestano una libertà e un’autonomia un tempo impensabili, come è dimostrato dal crescente numero di unioni di fatto, di donne single e dal comportamento disinibito di giovani e giovanissime. Ma sovente l’esercizio della libertà mutua il modello esistente, quello dei maschi. Inoltre un’autentica dittatura telecratica impone i suoi modelli e i suoi disvalori, vecchi e nuovi stereotipi: la manipolazione della immagine della donna, la sua riduzione al mero corpo.

Inoltre, se alcune rivestono incarichi di grande autorità e rilevanza istituzionale, possiamo dire che nella vita politica, nei luoghi dove si decide, abbiano un potere reale? A mio avviso, no.

Viviamo insomma in una società che rimane maschilista, non a misura dei due generi, ma di uno solo. Le vicende giudiziarie in merito ai comportamenti veri o presunti dell’ex Presidente del Consiglio, Berlusconi, e le reazioni dei media e della pubblica opinione in proposito sono, da questo punto di vista, sintomatiche e desolanti: penso allo spostamento del dibattito dalla valenza politica dei comportamenti delle persone che svolgono un ruolo pubblico al mero gossip, alla diffusa identificazione maschile con certi comportamenti, alle stupide contrapposizioni tra le ragazze ospiti ad Arcore e le donne per bene, al tentativo, operato dopo la straordinaria manifestazione organizzata da SNOQ il 13 febbraio 2011, di asserire che le femministe da libertarie erano divenute bacchettone.

Tuttavia, anche se, purtroppo, c’è una grande frammentazione dei movimenti, delle reti, delle associazioni delle donne, che non riescono perciò a pesare come “soggetto politico”, sussiste una grande voglia di cambiare, di protestare, di “esserci”. L’8 marzo mantiene il suo significato simbolico. Un 8 marzo nelle piazze, un 8 marzo di rivendicazione e di lotta ha secondo me oggi uno spazio importante e la giornata potrebbe, se fossimo capaci di passare il testimone alle giovani generazioni, tornare ad avere un grande significato liberatorio. Personalmente mi auguro che ciò possa avvenire".

Marisa Rodano, 8 Marzo 2013





Fiorenza Taricone  / Laudatio per la Laurea Honoris Causa a Marisa Cinciari Rodano

Magnifico Rettore, Direttore, Autorità Accademiche, Colleghi e Colleghe, Signore e Signori, Studenti e Studentesse, esponenti di associazioni femminili qui presenti. Sono molto onorata dell’incarico di presentare la Laudatio dell’On. Marisa Cinciari Rodano, in qualità di Coordinatrice del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, che ha formulato la proposta, dando inizio a quel viaggio burocratico-istituzionale che ci ha condotti qui stamane; ma anche personalmente felice di poter pronunciare nei suoi riguardi parole autentiche di stima e riconoscenza, che hanno assai poco di retorico e molto di genuino. Il suo cursus honorum come si dice, rimanda nell’immaginario a una cornucopia: molti i frutti che fuoriescono, altrettanti quelli ancora celati all’interno, anche perché gli ambiti da lei prediletti e i territori abitati sono stati soggetto recente di analisi storica da parte degli studi di genere e sfuggono ancora ad una visione complessiva. Possiamo, anzi dobbiamo ricordare che fu tra le fondatrici nel ‘44 dell’Unione Donne Italiane, l’associazione nata nell’immediato dopoguerra, con pregiudiziale antifascista, che riuniva principalmente le donne comuniste, socialiste e repubblicane, ma che ambiva a rappresentare i bisogni delle donne nuove in un’Italia nuova, è stata Consigliera comunale a Roma per più di dieci anni, dal ‘46 al ‘56, Deputata alla Camera dal ‘48 al fatidico ‘68, Senatrice fino al 1972, Consigliera provinciale dal 1972 al 1979, Parlamentare europea, Componente della Commissione nazionale parità, tra le fondatrici del Caucus e animatrice negli ultimi anni di una Rete per la Democrazia paritaria; tutto ciò però  dice molto di più se a questo si accoppiano i valori con i quali gl’incarichi sono stati accettati e interpretati. E’ questa sinfonia d’ideali, valori e cultura, del politico, del sociale, del privato, cui vorremmo oggi rendere omaggio, seconda donna cui l’Università rende omaggio dopo Simone Weil. Forse Marisa Cinciari Rodano ricorderà la lezione di storia e di vita che ci diede quando, esattamente il 6 marzo di dieci anni, fu ospite all’Università di Cassino, per un seminario sulle pari opportunità. Il titolo del Seminario, lo stesso del volume pubblicato a un anno di distanza, recitava Generazioni diverse: mutamenti a confronto, perché era molto chiaro fin da allora, che lei rappresentava per ragazzi e ragazze un personaggio-cerniera, una cerniera fra generazioni diverse, Italie diverse, fra tradizione e modernità, fra culture arcaicamente misogine e modernità della condizione femminile, fra perennità, se mi lasciate passare il termine e distorsione di alcuni valori fondanti la comunità politica. Allora, come sempre, non era difficile entrare in contatto con Lei e chiederle di partecipare: nessun filtro, nessuna schiera di portaborse, nessun tempo interminabile prima di avere una risposta, senza essere richiamati. Era sufficiente un telefono, una mail, una disponibilità non tarata sul criterio dell’illustre e sul clamore di ritorno dei media. Il tema di cui parlò, anticipava largamente uno dei nodi degli anni a venire: La politica come valore. In quell’occasione diceva, e la cito: Per la mia generazione e anche per altre successive alla mia, diciamo fino agli anni ‘70, la politica era intesa come mezzo nobile per operare al fine di costruire la libertà e un assetto sociale giusto e ordinato, sciogliere le contraddizioni, combattere le disparità …  ho cominciato molto presto a entrare nella sfera pubblica, a 17 anni, in seconda liceo. Va detto subito che le ragazze della mia generazione quindi anche io, non abbiamo scelto l’impegno politico: non pensavo che la politica sarebbe stata la scelta della mia vita, avevo allora altre aspirazioni, avrei voluto dipingere, sognavo di fare l’esploratore, aspiravo ad essere uno scienziato … la mia generazione non ha scelto la politica, è stata scelta dalla politica, chiamata, mobilitata dalla storia. C’era il fascismo, nel ‘38 vennero emanate le leggi razziali, vedemmo i nostri compagni di scuola e anche insegnanti costretti ad abbandonare il nostro liceo statale, perché non appartenenti alla razza ariana, ne restammo prima stupite, poi angosciate e sconcertate. L’avvicinarsi della guerra rafforzò in noi la convinzione che ci si doveva battere contro uno stato di cose che ci avrebbe portato al disastro. Contava anche l’essere donna: noi ci sentivamo eguali ai nostri compagni di scuola, ma in famiglia non era così, alle ragazze era concessa minor libertà, si predicava loro un avvenire domestico … noi non volevamo vivere come le nostre madri, spesso frustrate e infelici. Se i nostri compagni s’impegnavano nella lotta antifascista perché non avremmo potuto farlo anche noi? La spinta originaria, a ben vedere, era la voglia di esserci, di affermare nei fatti la nostra eguaglianza coi maschi. Oggi si direbbe forse che volevamo omologarci, ma allora l’eguaglianza ci appariva come un valore irrinunciabile. Entrai così in un gruppo clandestino al Liceo, poi all’università ci fu l’incontro con altri giovani, già impegnati con docenti prestigiosi, dopo tre mesi avevo abbandonato la facoltà di Scienze biologiche, troppo impegnativa per le esigenze della cospirazione antifascista, e mi ero iscritta a Lettere. Nel ‘43 fui arrestata dalla polizia fascista assieme ad altre quattro ragazze. Già da questo primo scorcio di vita di Marisa Cinciari, una bella ragazza bionda dalle larghe trecce, di buona famiglia, il cui padre non fu mai in sintonia politica con lei, sono evidenti molte delle ragioni che hanno spinto Scienze della Comunicazione a proporre la laurea, epilogo di un percorso e insieme un riconoscimento, che gli impegni assolutizzanti della sua vita non le consentirono di portare a termine; di mezzo si misero la prigionia, la Resistenza, la militanza politica, l’impegno nell’associazionismo femminile, la famiglia assorbente e numerosa, cinque figli, nati dall’amore profondo per quel compagno di scuola, diventato presto suo marito, intellettuale della sinistra cristiana, Franco Rodano. Una laurea, che oggi le viene attribuita non perché banalmente ha fatto della sua vita un’ininterrotta comunicazione politica pur alta, imparando e improvvisando linguaggi diversi, nei comizi, nei media, nelle istituzioni, all’Onu, al parlamento europeo, nelle manifestazioni per la casa, per i servizi essenziali nelle borgate romane, ma perché è stata un modello. Solo l’Università, riteniamo, poteva rivendicare questo diritto, poiché almeno nei suoi intenti cerca di essere non solo un distributore di crediti e un verificatore di nozioni, ma un diffusore di modelli positivi. In lei ritroviamo il coraggio delle scelte, la coerenza, il mantenere gl’impegni anche quando la gravidanza le ricorda che i figli scelgono di venire al mondo nei momenti meno adatti, per esempio quando ci si è iscritti per un intervento alla Camera o si deve votare. Ma anche un modello di equilibrio fra vita privata e vita pubblica, fra emancipazionismo, come si diceva prima dell’irrompere sulla scena mondiale e italiana del femminismo, e liberazione, fra fede profonda e dolore per le durezze delle gerarchie vaticane, come la scomunica a carico dei comunisti nel 1949, ancora forse più incomprensibile per lei, che era entrata in relazione con la Chiesa senza mediazioni politiche né esperienze di Azione Cattolica. Marisa Cinciari e Franco Rodano si sposano nel febbraio del ‘44, e la foto che la ritrae ha ormai seppellito la giovane benestante borghese, figlia di un soldato, poi Podestà e imprenditore, e di un’elegante crocerossina mantovana inurbata per amore. Lei stessa ricorda che la madre cercava di rimediare a quell’aspetto dimesso di una giovane sposa, che rifiutava la ricchezza per motivi di coerenza e accettava il prezzo della scelta. A 27 anni, Marisa Cinciari Rodano ha già per così dire, bruciato le tappe e rappresenta un modello di giovane donna, oggi per alcuni versi, nonostante l’emancipazione, impensabile, in quanto ad autosufficienza e prolificità: è giovane parlamentare, aveva provato il carcere, era già madre di tre figli, e le scelte erano state una diretta conseguenza della sua scala valoriale; derivavano, prima che da una scelta partitica, da una sensibilità personale molto accentuata che la portava a rifiutare le ingiustizie verso i più deboli, i soprusi ingiustificati, l’arroganza di coloro che erano socialmente ed economicamente più forti, a danno dei diseredati e dei senza-diritti. Negli scritti e nei fatti concreti della sua vita, a dispetto del costante understatement che caratterizza Marisa Cinciari Rodano, emerge il tessuto del paese visto da una donna la quale certo non gloria se stessa; anzi, minimizza la fatica degli impegni politici, i comizi in località impervie, il logorio di un ruolo istituzionale quale quello di Vice Presidente della Camera, senza i privilegi che da tempo circondano deputati, senatori, ministri nonché il sottobosco, il desiderio di tornare agli affetti e impegni domestici sempre il più presto possibile da qualunque parte d’Italia, il tormento della spola fra la disciplina di partito e le sirene della dissidenza esterna. Un tono low profile, evidente con la descrizione dei vestiti da ragazza adattati alle gravidanze, con il disagio nell’avere da vice presidente della Camera, un autista e macchina di servizio, più segretaria e ufficio. “Era allora la vita del parlamentare assai più spartana e meno appetibile, quanto meno per chi stava all’opposizione, di quanto non lo sia oggi: il compenso era piuttosto modesto, e per il 50% doveva essere versato al partito; al rimborso spese si aveva diritto solo per i giorni di presenza effettiva alle sedute, certificati dalla firma sull’apposito registro; disponevano di biglietti di viaggio gratuiti per i familiari che anch’essi venivano in gran parte incamerati dal partito. Non si aveva l’uso del telefono, di un ufficio, meno che mai diritto a un assistente”. Una modestia di fondo che non voleva dire affatto arrendevolezza, anzi, la durezza e la fermezza erano requisiti necessari, ma una modestia che era priva della componente di arroganza e del pretendere la ragione urlando o aggredendo. Ammette nelle sue memorie anche un certo masochismo nel rifiutare le collocazioni di prestigio che il gruppo comunista le offriva dopo la Vice Presidenza della Camera: la Commissione Esteri, la Commissione di vigilanza sulla RAI. “Proseguii nella mia scelta masochista, scelsi la Commissione Pubblica Istruzione”. Insomma tutto delle vicende personali andava possibilmente ridimensionato, perché la politica nazionale e di più quella internazionale, incalzavano sempre nella vita e nelle emozioni di Marisa Rodano, sempre più sola però nelle istituzioni, con una compagine femminile che dopo il ‘48 continua a diminuire, come annota: da 43 si era scesi nel 1953, a 34. Nel ’58, le elette alla Camera erano solo 22. Il coro femminile numeroso non era nelle istituzioni, era nell’associazione dell’Udi, con le lotte per la casa e il risanamento delle borgate della Capitale, è nelle solidali donne romane che ospitarono fino alla fine dell’anno scolastico i figli di braccianti poverissimi, vittime delle alluvioni del Polesine nel 1951 e ancora prima, insieme a famiglie di tutta Italia, i bambini sfollati del cassinate. La vita politica non conosceva soste neanche a casa, frequentata a cena, dopo cena, nelle feste e nei momenti di svago da amici/amiche, colleghi/colleghe di partito, intellettuali, soprattutto nella casa romana di via Latina, ormai luogo simbolo e ancora oggi luogo di discussione e progettazione per una democrazia paritaria.  Una casa che già le emancipazioniste del primo Novecento in Italia, avevano cominciato a ribaltare nel loro significato tradizionale di luogo femminile spesso oppressivo e non dialogante con la sfera pubblica. Lo avevano fatto rendendo le loro case luoghi di progettualità associativa e politica, diventando oltre che tradizionale angelo del focolare, un genius loci. Ma di questa storia di riscatto, di emancipazione, come lei stessa scrive, nel dopoguerra le donne non avevano pressoché alcuna conoscenza, la cesura fascista aveva operato una vera rimozione della memoria. L’attività nell’Unione Donne Italiane, a partire dalla fondazione, il lavoro come Presidente ha certamente contribuito ad evitare il pericolo di non avere più il polso della realtà, il ben noto distacco della politica di cui si è parlato molto negli ultimissimi decenni. Credo che solo il tener presente entrambe le dimensioni pubbliche di Marisa Rodano, quella partitica, nella Sinistra Cristiana e nel PCI, poi,  quella associazionistica possano restituire per intero la trama della sua vita, nel dritto e nel suo rovescio, e quindi la complessità dei momenti che ha vissuto l’ intero Paese, momenti che hanno costruito, nel pensiero di chi parla ora, una grande storia. La stessa Marisa Rodano ricorda nel suo libro Memorie di una che c’era. Storia dell’Udi, che è stata spinta a tentare questa narrazione per il dispiacere che andasse dispersa la memoria di una parte importante della storia italiana e della sua vita. Ho infatti sentito l’Udi –cito- come una mia creatura, per aver contribuito a farla nascere e a farla crescere in anni difficili. L’Udi è stata per me anche una famiglia, una casa, un luogo di tante stimolanti relazioni con donne di tutte le condizioni sociali, compagne e amiche, nata nel fuoco della lotta di liberazione nazionale dall’occupazione nazista, in mezzo alle macerie di un’Italia devastata, con la Resistenza, cui hanno preso parte non solo operaie, braccianti, intellettuali e professioniste, ma anche contadine, mezzadre, casalinghe, studentesse, operando una saldatura tra donne di ceti sociali diversi, di differente livello culturale e orientamento ideologico. Si racconta, e forse è una leggenda, ma significativa, che quando Olga Prati, poi Presidente dell’Udi di Ravenna, raggiunse in montagna la brigata partigiana, del Partito d’Azione, il comandante avesse detto: “Meno male che sei arrivata, guarda come sono strappati i miei pantaloni” e che lei gli avesse risposto: “ecco ago e filo, rammenda, io sono venuta per combattere, non per riparare i vestiti”. Formalmente l’Udi ebbe origine nel congresso di Firenze del 1945, nel quale avvenne la fusione dei circoli sorti nell’Italia liberata, a opera del Comitato d’iniziativa, nato a Roma nel ‘44, con i Gdd, che avevano agito nell’Italia occupata. Marisa Cinciari Rodano faceva parte allora del Partito della Sinistra cristiana, insieme ad alcune che erano state staffette romane del periodo della cospirazione antifascista, prima del 25 luglio ‘43, altre provenivano dalla lotta clandestina e dai Gruppi di difesa della donna durante i nove mesi dell’occupazione nazista. Alcune di esse sarebbero diventate dirigenti dell’Udi. In una capitale, dove i tedeschi non avevano mai rispettato le dichiarazioni che Roma sarebbe stata città aperta e lo sbarco degli Alleati del 22 gennaio ’44 attirava nella capitale i bombardamenti americani, si cercava di far comprendere alle donne come la politica non fosse solo cosa da maschi e soprattutto convincere gli uomini di quanto fosse importante far avvicinare le donne all’impegno pubblico, per farne un sostegno alla nascente democrazia. Marisa Rodano ricorda che a lei, ma non solo, non interessava la politica nel senso della professione o della carriera. Questa ipotesi non era ancora presente nel nostro immaginario, l’esigenza era casomai agire, fare qualcosa di utile. E di lavoro utile a tutti nella storia dell’Udi non c’è che da scegliere: riunioni, brogliacci, volantinaggi, ciclostilati, organizzazione di colonie, duelli verbali, scontri fisici, denunce, occupazioni, comizi, opere di persuasione, aiuti nelle emergenze e nelle calamità, preparazione del giornale <<Noi Donne>>; i primi due numeri erano stati pubblicati a Napoli, nel luglio e nell’agosto ‘44. Il giornale usciva a intervalli irregolari, variava sempre tutto, la qualità della carta, il formato, il numero delle pagine, a volte i numeri erano stampati in azzurro, altre in nero, altre in color seppia, fotografie quasi indecifrabili. La complessità di una strategia nell’Udi che concretizzasse l’emancipazione femminile, termine che per molti anni non fu neanche usato, acuiva i contrasti con i dirigenti del movimento democratico. “L’idea che un movimento di massa si battesse per emancipazione femminile appariva una stranezza, o peggio, una diversione rispetto agli obiettivi veri. I militanti della sinistra, con pochissime eccezioni, consideravano l’emancipazione femminile quasi una parolaccia. Una donna emancipata era, per non pochi tra loro, una donna poco seria. I cattolici non andavano oltre il termine promozione. Insomma, l’emancipazione sembrava sempre essere finalizzata a qualcos’altro. Definire poi cos’era l’autonomia dell’Udi rispetto ai partiti, comunista e socialista, era ancora più arduo. Sostenere la tesi nel ‘56 della non appartenenza ad alcuno schieramento era, per molte iscritte e dirigenti, un pugno nello stomaco. Saremo state ingenue, ricorda, ma quell’affermazione era un modo, espresso in termini rozzi e impropri, di cui forse neppure noi eravamo pienamente coscienti, per indicare che il fondamento per l’esistenza di un movimento di donne stava nell’appartenenza al sesso, e non nella collocazione politica o sociale. Ricordo come, per anni, la nostra tenace insistenza a definirci un’associazione di tutte le donne, anche cattoliche, anche socialmente privilegiate, si scontrasse di frequente con l’obiezione, divenuta quasi un ritornello, secondo cui era impensabile che la signora Agnelli potesse avere qualcosa in comune con un’operaia della Mirafiori … quando, molti anni dopo, una Agnelli, Susanna, entrò a far parte durante la campagna referendaria del Comitato in difesa delle legge 194, sulla depenalizzazione dell’aborto, devo riconoscere che mi sono quasi sentita risarcita di tante polemiche … noi, il nostro affannarci, e soprattutto la storia, non facevano parte della storia con la s maiuscola; la storia politica era lo scenario, le donne non erano ancora protagoniste, ma come me, al massimo formiche, costruivano a piccoli passi un cambiamento che in futuro sulla storia avrebbe influito, allora della storia sembravamo soltanto testimoni. Militanti del Pci, partito regolato dal centralismo democratico e da una forte disciplina, oltretutto da noi introiettata, e a un tempo dirigenti dell’Udi: un’autentica schizofrenia. Le ragazze dei movimenti extraparlamentari divenute femministe avrebbero coniato anni dopo il termine di doppia militanza. Impegnate in un’estenuante battaglia per far prevalere l’autonomia del movimento delle donne e per cercare di svincolare l’associazione dalla tutela dei partiti, ci trovavamo strette in una contraddizione lacerante tra opposti interessi e opposti doveri. Era il classico tentativo di vuotare il mare con un setaccio. Il tema della doppia militanza e dell’autonomia dai partiti è sempre stata un’esigenza ben nota anche ad altre associazioni, qualcuna oggi qui rappresentata e con cui l’Udi ha avuto rapporti fin dalle origini. Di queste, due in particolare, la Fildis e la Fidapa, ricostituite nel dopoguerra, si erano mobilitate assieme all’Udi: la prima per il diritto di voto, ed entrambe sul tema dell’eguale retribuzione per eguale lavoro, un tema che mutatis mutandis, è ancora oggi nell’agenda di queste e tante altre associazioni, e si chiama equal pay gap. Nell’ottobre del ‘57 a Milano si era svolto un Convegno intitolato Retribuzione eguale per un lavoro di valore eguale, promotore oltre all’Udi, alla Fildis e alla Fidapa, il Consiglio nazionale Donne Italiane, la Federazione Donne Giuriste, la Young Women Christian Association, l’Unione giuriste italiane, l’Unione Femminile nazionale, l’Associazione delle infermiere professionali, e l’Ande Associazione nazionale donne elettrici. Un sociale attraversato da Marisa Rodano e dall’Udi, anche in questi territori, non solo feriti dalla guerra, ma oltraggiati nella sua parte femminile. L’Udi s’impegnò sul problema delle violenze perpetrate dai goumiers marocchini dell’esercito francese del generale Juin, nel maggio 1944. Nel Frusinate la battaglia era durata nove mesi e gravissime furono le responsabilità dei comandi francesi e alleati, perché alle truppe fu promessa, se sfondavano, licenza di saccheggio e di stupro. A quelle milizie sembrava del tutto ovvio che il territorio conquistato fosse territorio nemico e non facevano distinzione tra soldati tedeschi e civili italiani. Purtroppo non è solo un evento straordinario del passato, né prerogativa di truppe di colore; dopo mezzo secolo da quegli eventi, popolazioni europee come i serbi non si sono comportate in Bosnia in modo molto diverso dai marocchini del generale Juin. La motivazione di quella campagna dell’Udi era prevalentemente sociale, sollecitare le pratiche di pensione per le donne vittime di quella tragedia e pacifista, ricordare gli orrori della guerra mentre ci si batteva per la pace … tuttavia finì per sollevare il tema della violenza maschile contro le donne, argomento a quell’epoca apparentemente rimosso e tabù, e indirettamente un altro quesito: se lo stupro doveva essere considerato un reato contro la morale(come era nel codice allora vigente), o un delitto contro la persona, interrogativo che ha ritardato per anni in Italia l’approvazione della legge contro la violenza sessuale. Le pratiche di pensione giacevano in un disordine indescrivibile presso l’Intendenza di finanza di Frosinone, essendosi persi sia gli elenchi alfabetici che quelli per comune. Molte donne si erano mosse in ritardo a volte perché non sapevano di aver diritti al risarcimento, altre per vergogna. L’Udi aveva avanzato la richiesta di considerare la liquidazione un contributo straordinario e di pagare la pensione regolarmente. Un territorio questo, che Marisa Rodano ha conosciuto anche attraverso gli scioperi a rovescio dei braccianti e disoccupati laziali dei Monti Lepini nel biennio ‘50-’51; lo sciopero a rovescio, ricordo per le generazioni più verdi, che era una forma di lotta, nata in ambiente contadino, poi propagandata anche nei centri urbani, che consisteva nel cominciare a costruire un’opera per poi chiedere il pagamento del lavoro effettuato, o meglio ottenere che l’opera fosse finanziata e appaltata. Un metodo che poi fu adottato anche nelle borgate romane per avere strade e acquedotti. Ma è con le vicende personali, intrecciate con quelle sociali e politiche dell’Udi per un quarantennio che possiamo leggere la sua vita come una lezione di storia e di crescita di ognuno. Le discussioni, le manifestazioni, le battaglie andavano dalle rivendicazioni per la mutualità delle pensioni alle casalinghe, alla riforma del diritto di famiglia, delle norme penali sull’adulterio, reato solo se commesso dalle donne, alla libera vendita dei prodotti anticoncezionali, stante la legge fascista che proibiva la propaganda di contraccettivi, all’educazione sessuale. Anche se alcune leggi d’iniziativa popolare non furono mai discusse, tuttavia, con la conquista del divieto di licenziamento per matrimonio si era aperta la strada alla giusta causa nei licenziamenti individuali e con lotta delle casalinghe e la richiesta d’ingresso nel sistema previdenziale di cittadine in cosiddetta condizione non professionale, l’Udi avrebbe contribuito a far maturare la prospettiva per il passaggio da un regime mutualistico a un sistema di sicurezza sociale. Intanto l’Udi ribadiva ostinatamente che era la lotta di emancipazione e non il socialismo il fine e la ragion d’essere dell’Udi, quindi un ribadire l’autonomia come soggetto politico; una fuga in avanti, sollecitata anche dal movimento studentesco, convinto che la fantasia dovesse andare al potere, e dal femminismo, con la sua pratica del partire da sé. Un decennio 1968/78 definito dalla Rodano, i favolosi anni settanta, caratterizzato dalla priorità della dimensione collettiva, dalla messa in discussione dei confini fra pubblico e privato, da un’esplosione della comunicazione e da un’eccezionale spinta partecipativa dei più diversi strati della cittadinanza, alla quale le forze politiche, il governo e anche l’opposizione cercano di rispondere sia pure talora allo scopo di controllarne la pressione innovativa, con l’offerta di sbocchi istituzionali. Per la prima volta nel ‘70 si votano i consigli regionali, presso le regioni sorgono consulte unitarie delle associazioni femminili. Genitori e insegnanti eleggono gli organi collegiali nella scuola, s’introduce il decentramento nei comuni, circoscrizioni, municipi, consigli di quartiere. Nel ‘68 la Corte Costituzionale dichiara incostituzionale la norma del codice civile per il quale solo l’adulterio della moglie costituiva motivo di separazione legale; nel ’69, gli articoli del codice penale che definivano reati l’adulterio e il concubinaggio. Si adotta nel 1970, ben 25 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la legge sul referendum che consente la pratica della democrazia diretta. Nel ‘70, per sollecitare l’approvazione della legge sugli asili nido, quella che sarà poi la legge n. 1044, con il concorso dello Stato, si svolse a Roma una sfilata immensa di mamme con tanti bambini in carrozzina, compreso, ricorda Marisa Rodano, il primo dei miei nipoti. Nel ’74, l’Udi s’impegnò nella campagna referendaria sul divorzio. I dirigenti politici uomini erano molto pessimisti sull’esito della consultazione. Pensavano che le donne sposate non più giovanissime, avrebbero avuto paura di essere abbandonate dai mariti liberi di trovarsi compagne più giovani e avrebbero votato per abrogare la legge. Nelle vicende della legge 194, sulla depenalizzazione dell’aborto, l’Udi svolse un ruolo decisivo, collocandosi in posizione equilibrata fra la paralizzante contrapposizione fra una semplice liberalizzazione voluta dall’Mld, e la casistica puntigliosa dei diversi gruppi politici. L’Udi era per la lotta all’aborto clandestino, la gratuità dell’intervento praticato nelle strutture sanitarie pubbliche e un sostanziale diritto delle donne all’autodeterminazione. Il successivo ventennio è segnato da una rivoluzione geopolitica: il crollo del muro di Berlino, il dissolversi dell’Unione Sovietica, la guerra nel Balcani, i conflitti etnici, religiosi, nazionali in Medio Oriente, in Asia, Africa, e l’intervento armato in Irak; le donne continuano invece a tessere una tela pacifica, pur se rivendicativa, con il ciclo delle conferenze internazionali aperte dall’Onu nel 1975, decennio della donna, Città del Messico, Copenaghen, Nairobi, fino alla IV Conferenza Mondiale sulle donne, Pechino 1995; Guardare al mondo con occhi di donna era la parola d’ordine del forum non governativo. Nel primo decennio del 2000, l’Udi, dop

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