Società/ Strategie Private - "Sono da pochi mesi nella segreteria di un Assessore donna..."
Redazione Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2005
Si, lo è, cara Giovanna.
La questione della differenza sessuale ha un importante e complesso risvolto linguistico. Le donne sono state escluse per secoli dall’istruzione e, in generale, dalla vita pubblica; il risultato di questa emarginazione è che la lingua si è sviluppata a partire dalle esigenze degli uomini. È significativo che esistano “uomini politici” ma non “donne politiche”.
Nella nostra società, dunque, le donne si trovano a esprimere se stesse in molti ambiti dell’esistenza con una lingua elaborata da e per un soggetto maschile. Il problema è complesso e si radica nella struttura delle diverse lingue. In italiano, per esempio, il concetto di “uomo” è ambiguo: da una parte infatti indica gli uomini per differenziarli dalle donne, dall’altra indica però l’umanità nel suo complesso, e quindi gli uomini e le donne.
Il linguaggio esprime dunque una prevalenza del maschile sul femminile, delineando un mondo in cui non esiste un soggetto femminile autonomo. Ci si trova a parlare un linguaggio in cui il concetto di uomo ingloba quello di donna ma non viceversa: se le donne possono essere indicate col maschile, i maschi non possono essere indicati col femminile. Se in una classe mista un insegnante provasse a usare il plurale femminile pronunciando una frase del tipo “avete capito tutte la spiegazione?” ci sarebbe probabilmente un’immediata sollevazione della parte maschile: ”ma insomma, professore, noi non siamo femmine!” Questo esempio permette di mettere in evidenza un altro fenomeno interessante legato al problema della differenza: il genere femminile ha un valore peggiorativo se rivolto a un maschio; la frase: “ti comporti come una femminuccia” è un insulto detto a un ragazzo o a un bambino, mentre “ti comporti come un maschiaccio” a una bambina ha un vago sapore di riconoscimento e comunque non è così umiliante. Se è vero, come affermano i teorici della comunicazione, che il mondo in cui viviamo è “una costruzione prevalentemente linguistica”, appare di straordinaria importanza che le donne nel corso della storia abbiano avuto pochissimi spazi per elaborare una modalità di espressione propria. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le conseguenze di questo fatto non sono marginali: sappiamo che la nostra visione del mondo è strettamente legata al linguaggio e in ogni occasione le parole che usiamo hanno peso e influenza. Un esempio? Qualche sera fa il docente di una nota università milanese presentava i brillanti risultati dei “ragazzi” del Master internazionale di Fashion Management. Alla mia domanda: “ma non ci sono anche ragazze?” ha risposto imbarazzato “si, certo, sono 30 su 40 e sono bravissime!” Senza una richiesta specifica di chiarimento, chi ascoltava avrebbe continuato a immaginare una classe di maschi. Il nostro modo di pensare il mondo è strettamente legato al linguaggio che usiamo e non possiamo sottovalutarne le implicazioni per le relazioni fra le persone e addirittura l’interpretazione della stessa realtà. Per una bambina, una ragazza, una donna la costruzione della propria soggettività è condizionata anche dal fatto di sentirsi visibile nel linguaggio con il quale ci si rivolge a lei. Questo è il motivo per cui oggi si tende sempre più a tenere conto dell’aspetto sessuato del linguaggio, rendendo visibile anche la parte femminile.
Come disse Sibilla Aleramo: “Io non so se i nomi di cui mi servo per tutte le cose di cui parlo sono nomi veri. Sono stati creati da altri, tutti i nomi, per sempre. Ma quel che importa non è nominare, è mostrare le cose”.
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