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A chi dare il potere in tempi di crisi e di precarietà? - di Vanna Palumbo

A chi dare il potere in tempi di crisi e di precarietà? - di Vanna Palumbo

Susanna Camusso, in piazza del Pantheon, pone il problema dei Giovani al centro delle politiche della confederazione

Martedi, 15/05/2012 - Alzi la mano chi non abbia mai urlato a gran gola, aizzato dalle bandiere di un corteo, “il potere a chi lavora”!

Erano gli anni settanta, certo, ma pronunciare questo slogan, un classico della cultura politica e sindacale post sessantottina, era rimasto un sempreverde nel kit fonico del militante di sinistra.

Perché la sinistra è cambiamento. O non è. E, dunque, deve rappresentare chi vive del proprio lavoro, non certo di rendita. Men che meno, di rendita da posizione dominante!

Era rimasto, dicevamo, ma non è più! È già un po' che nessuno salta sulla sedia se, sbirciando una spiritosa giovane faccetta che 'sbuca' da un manifesto affisso per strada, scorge un refrain che rivendica il contrario: “il potere a chi non ha il lavoro!”

Al punto che esso è divenuto il riff della campagna pubblicitaria destinata a chi voglia devolvere l'8 per mille ad una comunità confessionale. Il potere a chi non ha il lavoro prorompe, in forma di palesata correzione alla vecchia formula, nella propaganda della Chiesa Valdese. A provocare, ci sembra lo scopo, un'attenzione e una compartecipazione alla condizione di quella fascia sempre più ampia di popolazione, i giovani, che un lavoro non ce l'hanno. Ma lo cercano. E come se lo cercano!

E se i comizi e l’happening musicale di piazza S.Giovanni del Primo Maggio ne hanno fatto l’emblema dei problemi del Paese, a infierire sulla questione sono intervenuti subito dopo i freddi numeri, ma roventi sul piano sociale, squadernati dalle rilevazioni dell'Istituto centrale di statistica. Cifre che suscitano allarme anche in un profano di tabelle e istogrammi: i disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono circa 600 mila, cioè il 35,9 p.c. della forza-lavoro di quell'età,e il 10,3 p.c. della popolazione complessiva della stessa fascia anagrafica (marzo 2012). Ed è la medesima fonte a precisarne la lettura corretta: più di 1 su 3 dei giovani attivi è disoccupato. Come a dire che sono ben di più visto che ad essere censiti come attivi sono, com'è ovvio, soltanto gli iscritti nelle liste di collocamento.

Passa qualche giorno e dopo l’Istat, ma elaborando i suoi stessi dati 2011, è il Congresso delle Acli a buttare in pasto all’opinione pubblica l’allarmante cifra di 5 milioni e mezzo di disoccupati o precari, prevalentemente giovani, e pari al 12 p.c. della popolazione.

Di dramma sociale s'era già parlato con l'acuirsi della crisi economica. Ma il quadro continua a peggiorare! E non si ferma sulla soglia dei 25 anni.

Il lavoro non c'é. Non c'è per i giovani, non c'è per le donne! E, con esso, manca la cultura del lavoro. Assente dal dibattito economico, in parte anche da quello politico, più concentrati sui glaciali numeri e curve dell’economia di carta che sui destini delle persone in carne ed ossa.

Ma come non cogliere qualche voce dissonante? E non solo di sociologi, filosofi e uomini di chiesa!. Sono una pattuglia, sempre meno sparuta, di economisti europei e d’oltreoceano, e, alla faccia dell’antipolitica, molti fra i candidati di questa vasta tornata elettorale, Hollande in testa. E manifestano la necessità di cambiare i paradigmi di questo nostro vivere umano che ha disumanizzato ogni cosa.

In tempi di pronunciamenti popolari - le amministrative in Italia, le presidenziali in Francia, le politiche in Serbia e in Grecia, e, importantissime, quelle parziali tedesche (che però sono un quarto dell’elettorato complessivo) del land del nord Reno Westafia, ecc- ricreare una moderna cultura del lavoro torna ad essere un obiettivo. Dati e grafici alla mano, invitano a riconsiderare le terapie anticrisi, partendo, manco a dirlo, dal ricostituire le ragioni prima e, poi, le occasioni ed i posti di lavoro.

Partendo dall'assunto che il lavoro, pur indispensabile per vivere, non è solo salario e reddito, ma fattore di emancipazione civile e sociale. E che riconoscere nel lavoro il principale titolo di dignità del cittadino non è esercizio retorico da praticare a commento delle troppe tragedie umane che le pagine di cronaca sono costrette a registrare da mesi. L’impossibilità di svolgere un ruolo attivo nel sistema delle relazioni economiche, sospinge verso la marginalità sociale, porta all’esclusione. Fino, nei casi estremi, all’autoesclusione definitiva!

E fermare tutto ciò non dipende - d’accordo persino la comunità valdese - da alcuna provvidenza che scenda dall’alto! Ma dalle misure adottate dai governi. Insomma dalle nostre scelte.

Allora cominciamo a dare un po’ di ‘potere’ ai Giovani, prima di tutto ascoltando ciò che hanno da dire. Come è successo il 10 maggio scorso nella Giornata di mobilitazione nazionale contro la Precarietà organizzata dai Giovani della Cgil. Che ha rivendicato proprio come ‘l’unico taglio giusto!” quello contro la Precarietà. E ce n’era di gente ad ascoltare le migliaia di giovani che hanno occupato piazze e teatri nelle oltre sessanta iniziative. A partire da Susanna Camusso, leader della confederazione, che, anche in questa occasione, ha fatto del problema dei Giovani e della loro difficile condizione di precari e di disoccupati il centro delle politiche della Cgil.

E poi, magari, ricordando al governo dei tecnici, regolatore del traffico della crisi italiana, che –come suggerisce la recente surreale satira di Massimo Bucchi- se “l’economia minaccia di travolgerci, noi però veniamo da destra!”



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