Marco Monari e Mori Roberta Martedi, 27/03/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2012
Se in occasione dell’8 marzo 2012 volgiamo il nostro sguardo al di là dei confini nazionali scopriamo che l’anno che ci siamo lasciati alle spalle è stato particolarissimo e importante, per quanto concerne il protagonismo delle donne in una delle stagioni più delicate che l’area mediterranea abbia vissuto da molti decenni a questa parte.
Il ruolo delle attiviste nella recente ondata di rivoluzioni nel Maghreb e nel Medioriente è stato, in alcune fasi, addirittura più rilevante di quello degli uomini, in un contesto sociale, politico ed economico nel quale – per tradizione – eravamo abituati a vedere la presenza femminile relegata troppo spesso a ruoli di secondo piano.
Sarebbe sbagliato ridurre questi eventi al ristretto contesto geografico nel quale si sono svolti e pensare che - al di qua del Mare Nostrum - i diritti delle donne siano pienamente affermati, che il tema non debba quindi continuare a essere una priorità nell’agenda politica, istituzionale ma anche nel dibattito che le varie componenti della società svolgono. Non è così. Dall’ambito del lavoro e delle professioni a quello del raggiungimento di un accesso paritario alle cariche politiche ed elettive, dall’organizzazione di tempi di conciliazione fra carriera professionale e maternità, alla sacrosanta richiesta di livelli retributivi più giusti, la strada da percorrere è ancora lunga, in Italia.
Soltanto pochi mesi or sono nella stessa seduta dell’Assemblea Legislativa dell’Emilia-Romagna tre colleghe consigliere (Anna Pariani, Palma Costi, Paola Marani) hanno presentato a tutta l’aula altrettanti importanti provvedimenti legislativi poi trasformatisi in leggi della Regione. Quel giorno come Presidente del Gruppo ho voluto esprimere la mia soddisfazione per un evento che possiamo tranquillamente definire “più unico che raro”. Il PD solo, infatti, da anni applica il criterio della rigida alternanza donna-uomo sia nelle primarie per la scelta dei candidati, sia nella presentazione delle proprie liste alle competizioni elettorali di ogni ordine e grado. E i risultati, più che positivi, si vedono.
In Emilia-Romagna la Commissione “per la piena parità tra donne e uomini” alla cui presidenza siede la collega Roberta Mori si è messa al lavoro: il 25 novembre si è svolto un partecipato convegno e la visita ai centri antiviolenza di Parma e Bologna. In questi mesi la Commissione ha dimostrato di considerare fondamentale il rapporto con le varie realtà territoriali (associative in particolare) e la loro conoscenza diretta. Il 16 dicembre scorso una delegazione ha partecipato a Ferrara ad un workshop sulla “medicina di genere”. E’ poi stata elaborata una Risoluzione sulla rappresentanza di genere che impegna la Regione a intervenire per una maggiore presenza femminile nelle istituzioni regionali e ad approfondire il tema degli strumenti normativi elettorali a riequilibrio e garanzia della parità di genere.
C’è un però, una macchia che, anche in una giornata di festa come quella dell’8 marzo, non posso non ricordare a chi ci legge, affinché sia da pungolo per voltare pagina una volta per tutte. Alcune settimane or sono infatti il comitato “Se non ora quando?” di Modena ha rivolto ai media una domanda che ci deve vedere attenti alla realtà quotidiana, che talora fugge via troppo veloce per consentirci di riflettere: «Può una società tollerare ancora la violenza alle donne? Può una società tollerare che nel nostro Paese 97 donne siano morte, nell’arco di un solo anno, per mano del proprio compagno o ex compagno?». E’ una constatazione agghiacciante sulla quale ragionare e agire, ad ogni livello, per far finire quella che, a mio parere, è una vera e propria statistica della vergogna per l’Italia.
In gennaio si è tenuta la visita a Roma della relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo, in missione conoscitiva nel nostro Paese. La Manjoo ha dichiarato: «La violenza rappresenta tutt'oggi un problema di estrema gravità che persiste nel mondo. Questa missione è un'opportunità unica per discutere e valutare l'impatto delle politiche e dei programmi adottati dall'Italia per contrastare questo fenomeno». Il mandato della relatrice speciale riguarda la violenza contro le donne in tutte le sue forme: familiare, in ambito sociale o della comunità, perpetrata o tollerata dallo Stato, violenza nella sfera transnazionale, compresa quella contro i rifugiati, le richiedenti asilo e le immigrate.
Come emerge sono molteplici gli ambiti in cui la battaglia per i diritti deve essere declinata. Anche grazie all’impegno di questa rivista, alle sue redattrici, lettrici e simpatizzanti, alle quali ci lega una collaborazione che ci onora da anni, auspico che saremo in grado di proseguire assieme – e celermente – il cammino sulla strada della piena e compiuta parità.
* Marco Monari - Presidente Gruppo PD Regione Emilia-Romagna
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DEMOCRAZIA, O E’ PARITARIA O NON E’
di Roberta Mori, presidente Commissione regionale per la Parità
Il principio di uguaglianza è strettamente legato al divieto di discriminazione sancito da molteplici fonti normative europee e convenzioni internazionali, lo completa e lo rafforza nel rispetto della nostra Costituzione. Il dogma dell’uguaglianza, però, se non perseguito con determinazione tenace e testarda concretezza, diventa causa di tensioni sociali, contraccolpi culturali ed emarginazione sociale.
Da qui l’urgenza di costruire un impianto giuridico che in tutti gli ambiti di affermazione e sviluppo della persona umana ne garantisca dignità e rispetto, rimuovendo gli ostacoli che impediscono oggettivamente la sua piena realizzazione. Ciò è determinante sia ai fini dei diritti individuali e fondamentali di ciascuno di noi, sia in termini di utilità generale del sistema, che potrà rigenerarsi su solide basi di un benessere di cittadinanza diffuso.
Vi è un nesso profondo tra uguaglianza e giustizia, tra uguaglianza e parità, tra parità e giustizia, perché il diritto positivo prende in considerazione soprattutto le disuguaglianze frutto di ingiustizie. Le stesse politiche redistributive, la promozione delle pari opportunità in favore dei soggetti deboli, le azioni positive, il “diritto antidiscriminatorio”, sono tentativi di prevenirle o contrastarle.
L’eredità culturale intangibile delle donne nel corso dei secoli ha contribuito alla costruzione del presente, e oggi pretende di essere decisiva per la costruzione del futuro. La scarsa rappresentanza femminile nelle istituzioni della polis è frutto di uno stereotipo, un pregiudizio di non affidabilità, che deve essere sradicato mediante precisi interventi di riequilibrio. In Italia il cammino è ancora lungo e in salita, come dimostra l’attuale composizione di Camera e Senato, dove la pre¬senza delle deputate è ferma al 21%, delle senatrici al 18%. Questo nonostante la massima e più autorevole carica dello Stato, il Presidente della Repubblica Napolitano, abbia affermato che “non possiamo ignorare la gravità dello squilibrio persistente in Italia, a danno delle donne, nella rappresentanza politica”. A livello di amministrazioni regionali non stiamo meglio. Basta citare le 7 consigliere elette su 80 in Regione Lombardia e il dato medio italiano dell’11,6% per constatare lo strabismo e la profonda parzialità di un sistema che relega a minoranza ciò che è maggioranza nel Paese e nel mondo.
Anche in Emilia-Romagna le donne sono sottorappresentate nelle posizioni apicali e di responsabilità, siano esse incardinate in sedi istituzionali, elettive, pubbliche o private: ad esempio le presidenti delle amministrazioni provinciali si attestano al 33%, le donne sindaco al 19,7% (numeri esigui ma pure i più alti in Italia), mentre rappresentano il 38,4% della Giunta regionale ma solo il 18% dell’Assemblea legislativa.
A fine 2011 si è tenuto a Roma il primo forum nazionale delle elette delle Regioni e Province autonome, organizzato dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative, da cui è scaturito un documento condiviso, da proporre alla discussione, per una modifica delle leggi elettorali che favorisca il riequilibrio di genere nella rappresentanza. Il documento, approvato all’unanimità prima dalla Commissione per la piena parità tra donne e uomini della Regione Emilia-Romagna e poi in plenaria, ha impegnato Giunta ed Assemblea Legislativa ad assumere concretamente il tema e contribuire a risolverlo.
E’ vero che non bastano i correttivi elettorali per superare ostacoli culturali e di sistema: ad essi vanno aggiunte solide politiche di conciliazione, fiscali e del lavoro. Né sfugge l’importanza della partecipazione delle donne ai vertici economici e societari e in tal senso un passo in avanti si è fatto con l’approvazione in Parlamento (avvenuta lo scorso 28 giugno) di una legge che stabilisce la presenza di almeno un terzo del genere meno rappresentato nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa e controllate. E’ però altrettanto vero che una politica rigenerata dalla presenza femminile potrebbe acquisire questi temi, così importanti per il rilancio economico e sociale del nostro Paese, con più slancio, consapevolezza e determinazione. Il cambiamento che ci dovrà portare ad una compiuta democrazia paritaria è avviato. Il cambiamento siamo noi.
Il Gruppo del PD in Regione Emilia-Romagna sostiene, da mesi, la campagna “L’Italia sono anch’io”, proponendo così la riforma del diritto di cittadinanza per i minori stranieri nati qui e accogliendo l’appello del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha di recente preso posizione a favore di questa soluzione.
Sull’argomento l’Italia ha norme assai restrittive, contrariamente agli Stati Uniti e a numerosissimi Paesi occidentali ed europei. Ai figli degli stranieri infatti è semplicemente concessa la possibilità di richiedere la cittadinanza al raggiungimento della maggiore età, a condizione che abbiano risieduto in Italia dalla nascita senza alcuna interruzione. Ciò li rende, a tutti gli effetti, bambini di serie B. Questi ragazzi vivono con i nostri figli, frequentano le stesse scuole, giocano assieme, si sentono nella stragrande maggioranza dei casi italiani; eppure da un momento all’altro potrebbero essere rimpatriati e perdere così ogni diritto.
Durante il dibattito in Assemblea Legislativa, nel confronto fra diverse idee politiche, un esponente del PDL ha accusato il centrosinistra di voler trasformare l’Italia nella “sala parto dell’Africa”. Il portato culturale che un’affermazione simile evoca non è un inedito nella nostra storia recente. La disgraziata avventura coloniale vedeva il Duce in prima fila nel cercare “un posto al sole”, ma contemporaneamente si emanavano leggi contro i meticci e per preservare la razza italica da “contaminazioni”. Negli anni del boom economico il nord affamato di manodopera impiegava un gran numero di meridionali, ma sovente essi finivano ghettizzati e si registravano episodi di intolleranza contro i cosiddetti “terroni”. Non solo a Milano e a Torino, anche a Bologna. E’ cresciuto un “leghismo culturale” che considera normale affidare agli extracomunitari le mansioni più umili e pesanti, e al contempo negare loro le tutele che reputiamo per noi sacre e inviolabili. In tutto ciò riecheggiano, spiace constatarlo, rigurgiti razzisti e certi provincialismi culturali tipici del ventennio fascista che spaventano e che speravamo archiviati per sempre.
Nel bel film “Almanya” nelle sale cinematografiche di recente c’è una frase importante pronunciata da Max Frisch, scrittore e architetto svizzero, a proposito dell’imponente fenomeno della migrazione verso la Germania avvenuto fra gli anni ’60 e ’70: “Abbiamo chiamato lavoratori – disse - e sono arrivate delle persone”. Fra loro, vorrei aggiungere, sono arrivati anche dei genitori e molto spesso (come racconta la pellicola) sono nati dei figli una volta che le madri e i padri si trovavano già in Italia.
Occorre allora avere il coraggio di affrontare alcune domande, senza nascondersi: un Paese che non sappia difendere i più piccoli, le giovani generazioni, può dirsi veramente evoluto? Per stare ancorati all’attualità: con la crisi che incombe – e l’elevato rischio di espulsione dei loro genitori, qualora perdano il lavoro e non si vedano rinnovato il permesso di soggiorno – cominceremo a rispedire a cuor leggero neonati e adolescenti oltreconfine “causa recessione”, negando loro qualunque diritto? Una società che con una mano censura a gran voce i perversi meccanismi che ci stanno impoverendo sempre più, e con l’altra intesta di fatto il conto di questa situazione a dei minorenni, a mio parere è indegna di considerarsi civile.
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