A 50 anni dai primi movimenti per la depenalizzazione dell'aborto, il dissenso antiabortista non demorde. È interessante perciò rileggere alcuni interventi del '74 e togliere il velo di polvere dall'obliato radiodramma di Bianca Garufi e Floriana Bo
Mercoledi, 11/09/2024 - Nei primi anni Settanta, in Italia, la stampa nazionale cominciava a prendere in considerazione l'idea che le donne, come soggetti attivi e come indicatori sociali di civiltà, dovessero decidere del proprio corpo. Un passo importantissimo, affrontato da più angolazioni non senza tensioni, lotte, perplessità, perbenismi e moralismi della pubblica opinione.
Nel settembre del 1971, ad esempio, il giornalista Igor Man intitolava su «La Stampa» il suo articolo di cronaca in presa diretta circa le manifestazioni emancipazioniste volte a depenalizzare l'interruzione volontaria di gravidanza: «Suffragette dell'aborto». Igor Man definiva il movimento: «una malattia sociale dell'Italia moderna».
Veniva additata come patologica la necessità delle attiviste di allora di: «abolire il reato di aborto». Il proposito che l'aborto stesso potesse diventare «una prestazione disponibile per ogni classe sociale» veniva demonizzato.
L'attualità delle rivendicazioni femministe di allora può lasciarci oggi nello sconcerto, visto il tenore del dibattito di ieri in contesto statunitense e vista l'apertura, sempre di ieri, a Torino, della cosiddetta «stanza dell'ascolto», gestita dal Movimento per la Vita.
Viene da ripescare e rileggere, in definitiva, la lettera aperta (indirizzata allora direttore de «La Stampa») redatta da Adele Cambria a nome delle femministe, nell'estate del 1974: «l'aborto», scriveva Cambria, «è ben lontano dall'esaurire gli obiettivi del femminismo», «le femministe dicono e ripetono che l'aborto non è una festa, non è un piacere: anche eliminando i modi sanguinosi ed i rischi cui la clandestinità di esso ci obbliga, l'aborto resterà, io credo, un fatto grave di scelta per qualsiasi donna responsabile».
Questa affiche di decisa militanza e di dolorosa consapevolezza faceva il paio, nel 1974, con un radiodramma andato in onda in più occasioni sui canali RAI e ingiustamente obliato; scritto a quattro mani da Bianca Garufi e Floriana Bossi: Femminazione.
In trenta minuti di copione drammaturgico, Garufi e Bossi (intellettuali, traduttrici, attiviste e operatrici culturali) dipingevano tre diverse vite di donne di varia estrazione sociale. Lei, Essa, Ella (soprannomi di Leila, Vanessa, Gabriella) subiscono il gravame del patriarcato e la tara del pregiudizio, sia nel contesto privato che in quello pubblico e lavorativo.
Il "soffitto di cristallo" blocca la carriera della donna meritevole ed esperta di medicina, la governante annoiata viene sedotta e messa incinta dal venditore di lavatrici porta a porta, la casalinga con l'hobby della sartoria si sente depressa e rinchiusa in una gabbia dorata di fatuità, mentre tutti intorno a lei si domandano che cosa le manchi.
In Femminazione le figure maschili non fanno che ignorare, svalutare, sminuire il disagio psicologico e sociale delle donne, abbandonandole a se stesse, al loro "capriccioso" dramma per una vita priva di gratificazione e realizzazione.
Nel broadcasting risuonano, altisonanti, le voci delle autorità maschili della filosofia, della letteratura, della politica. «Quando vai con le donne», recita l'aforisma di Nietzsche, «non dimenticare la frusta!».
«La soluzione», tuona Tolstoj, «non è che la donna governi il mondo, bensì che cessi di rovinarlo».
A mezzo secolo dalle lotte per l'autodeterminazione delle donne italiane, per la loro opportunità decisionale sul corpo, per le tutele normative in fatto di interruzione di gravidanza, sì, alcuni passi sono stati fatti. Eppure il rischio di tornare indietro è palpabile. La regressione incombe in ogni momento.
Sarebbe bene tenere vivo il dibattito, riscoprire e rileggere i contributi delle attiviste di 50 anni fa e domandarsi, onestamente, in che modo sostenere le donne mettendo a frutto il nostro sguardo privilegiato su un'oppressione tanto ingiusta quanto, purtroppo, millenaria.
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