Oggi 25 novembre è la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle donne, data che ha ormai uguagliato l’8 marzo per numero di iniziative promosse dai tanti e vari soggetti. Complice l’assenza da Roma, lo sguardo si volge altrove e lancia un’occhiata lunga per capire cosa sta accadendo in un altro continente, dove da tre giorni oltre mille e cinquecento donne discutono di femminismo.
Era il lontano 1981 e a Bogotà in Colombia centottantanove donne, provenienti da diciannove paesi diversi dell’America centrale e del Sud, diedero vita al primo EFLAC – EncuentroFeministaLatinoamericanoydelCaribe. Proprio durante quell’incontro le partecipanti accettarono la proposta della delegazione Dominicana di rendere omaggio alle sorelleMirabal brutalmente assassinate il 25 novembre del 1960 per ordine del dittatore Trujillo, affinchè quella data diventasse una celebrazione mondiale contro la violenza sulle donne, come poi ha di fatto sancito ufficialmente l’ONU nel 1999.
Trentatrè anni sono passati e le femministe sudamericane sono di nuovo insieme, questa volta a Lima per celebrare il tredicesimoappuntamento dell’EFLAC che questa volta mette al centro la liberazione dei corpi. “Il movimento femminista si fa ogni giorno più plurale - si legge nel manifesto politico dell’iniziativa -. Sono passati più di trent’anni dal primo incontro e molte cose sono cambiate. Assistiamo ad una crisi dei paradigmi, all’avanzata del capitalismotransnazionale, all’esproprio di territori e corpi, alla negazione continua delle differenze interne al continente latinoamericano e al conseguente avanzamento di razzismo, sessismo, omofobia, sfruttamento socio-economico e imposizione culturale. La lezione fondamentale che da questo possiamo trarre come femministe è che, nonostante il patriarcato segni profondamente la vita di noi donne, non è possibile analizzare l’oppressione maschile se non mettendola in stretta correlazione con le altre forme di dominazione che sono state negate per anni e che adesso vengono fuori grazie al protagonismo di donne prima assenti dal dibattito: indigene, afrolatine, transessuali, donne disabili. L’orizzonte femminista si sostiene su questa enorme diversità.”
Questo manifesto mostra come si può parlare di violenza senza nominarla, evitando di dipingere occhi neri, spargere sangue finto, additare gli uomini come potenziali molestatori, fare la conta delle morti invitando politici a battersi il petto perché è il 25 novembre. Un approccio diverso dalle modalità con cui il governo italiano ha approvato la cosidetta leggecontroilfemminicidio o ha inviato all'ONU, lo scorso giugno, il rapporto relativo alla parità di genere e alla condizione delle donne. Una voglia di aprirsi al confronto tra diversi punti di vista lontana anni luce dalle tante discussioni in rete tra militanti o pseudo tali farcite di personalismi, antipatie, vecchi conti in sospeso. Il dibattito a Lima, al contrario, vuole aprire quel cerchio magico entro cui inscrivere le pratiche, le teorie e le persone che sostengono il femminismo, destinato ad allargarsi sempre di più a diverse soggettività.
E se fosse necessario ricordarlo ancora una volta, l’incontro peruviano ribadisce che il femminismo non è un movimento di donne bianche, borghesi e altamente istruite. Di fatto non lo è mai stato, sin dalla sua origine. Già nel 1975, anno della "nascita" del termine “gender” nel saggio di GayleRubin, e della prima conferenza internazionale delle Nazioni Unite a Città del Messico, parteciparono donne di tutto il mondo, sia durante la conferenza ufficiale sia nel forum alternativo che contava parecchie centinaia di attiviste. Nonostante ogni paese abbia avuto la sua storia peculiare e abbia conosciuto dunque una diversa evoluzione della teoria e del pensiero femminista, tante sono le attiviste che non hanno mai smesso di cercare compagne di lotta al di là delle frontiere nazionali, di leggere testi e raccogliere libri in altre lingue, coltivando il sogno di una sorellanza internazionale. Con la rivoluzione digitale e l’accesso alla rete, questo è stato più semplice e anche grazie alla potenza di internet si sono diffuse alcune storie di femministe non occidentali, ormai conosciute ovunque. È così che oggi il femminismo ha la pelle nera della scrittrice nigeriana ChimamandaNgoziAdiche e gli occhi verdi e l’anello al naso di SampatPal, porta il velo come MalalaYousafi e la mimetica come le combattenti del YPJ che resistono per Kobane e per le donne di tutto il mondo.
Diversità che è possibile riconoscere nei volti delle partecipanti all’incontro peruviano, unite dalla stessa voglia di auto-determinazione e di liberazione dei corpi. “La partecipazione è individuale. Siamo femministe di differenti correnti, espressioni, identità, età. Ci sono donne che vengono da movimenti sociali, organizzazioni non governative, collettivi e gruppi della società civile, ma anche donne leader di comunità, contadine, lesbiche, donne indigene, trans, sexworkers, insieme a funzionarie dello stato. Tutte vengono qui perchè si riconoscono come femministe”, racconta Mariela Jara del comitato organizzatore. Lo stesso che ha meticolosamente programmato ogni aspetto dell’incontro, trovando alloggi economici, mettendo a disposizione case private, programmando momenti di poesia, musica e ballo.
Nessun focus particolare sulla violenza, quanto la scelta di parlare di corpi scegliendo questo tema come fil rouge del dibattito, declinandolo ogni giorno in un modo diverso: interculturalitàcritica, sostenibilitàdellavita, corpi e territorio. Questo bisogno di parlare di sessualità e desideri è stato espresso fortemente e all'unanimità durante la conferenza stampa e nella plenaria di apertura: “Come donne contadine, abbiamo appreso dai nostri nonni e dalle nostre nonne come difendere l’acqua, la terra, i semi, ma non ci hanno insegnato a godere del nostro corpo. Il femminismo ci ha insegnato che conoscere, amare e godere del nostro corpo è vitale per la nostra lotta e per poter parlare di politica.” ha dichiarato LourdesHuanca, Presidente della Federazione nazionale delle donne rurali, indigene e native artigiane del Perù. Altrettanto forte la voglia di riappropriarsi come femministe di coscienza e azione politica. JulietaParedes (nella foto), femminista contadina della Bolivia che denunciando la de-politizzazione del movimento, ha affermato: “Abbiamo bisogno di un femminismo che accompagni i nostri fratelli per le strade mano nella mano, durante i processi storici che vivono i nostri popoli". Lo slogan 'la rivoluzione o sarà femminista o non sarà' in questo contesto è più viva che mai e anche la sindaca di Lima, Susana Villarán, ha partecipato all’apertura dei lavori ricordando l’importanza della componente dissidente propria del femminismo: “La radicalità delle istanze è un fatto molto importante perché porta con sé la voglia di ribellione fondamentale per cambiare e disinnescare i meccanismi di controllo su di noi e sui nostri spazi di azione politica.”
Plenarie e discussioni i cui risultati formeranno oggi il documento finale dell’incontro e alle due e mezza, ora locale di Lima, le donne marceranno insieme contro la violenza. Lo faranno anche a Roma tant* militant* di collettivi e associazioni si sono dat* appuntamento alle 18.30 davanti alla scuola Pisacane, tra Tor Pignattara e il Pigneto. Latitudini e fusi orari diversi ma la stessa voglia di scendere in strada, fare rumore, mostrare corpi ribelli e sorridenti, essere diverse ma insieme. Perché non esiste un femminismoladylike, ma solo un movimento plurale che si apre a tutte le soggettività che piano piano, per dirla come molte pensatrici post-coloniali, dalla periferia si stanno avvicinando al centro. Un centro sempre in discussione.
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