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2 giugno: le prime 21 donne elette all’Assemblea Costituente

2 giugno: le prime 21 donne elette all’Assemblea Costituente

La politica non è un mestiere, è una missione. La presenza femminile in politica non è solo una questione di numeri, ma soprattutto di nuovi punti di vista

Domenica, 31/05/2020 - “Eravamo consapevoli che il voto alle donne costituiva una tappa fondamentale della grande rivoluzione italiana del dopoguerra. Avevamo finalmente potuto votare e far eleggere le donne. E non saremmo state più considerate solo casalinghe o lavoratrici senza voce ma fautrici a pieno titolo della nuova politica italiana”. Così la deputata Filomena Delli Castelli ricordava il 2 giugno 1946, il giorno in cui anche le donne occuparono il proprio posto nella vita politica italiana.
Il 2 giugno, oltre a scegliere la forma di governo repubblicana, gli italiani e le italiane elessero l’Assemblea Costituente, che avrebbe dato al neonato Stato una nuova base giuridica.
All'Assemblea Costituente furono elette, su un totale di 556 deputati, 21 donne. Insegnanti, giornaliste, attiviste di partito e della Resistenza, queste donne contribuirono con il loro punto di vista a fondare un’Italia basata su diritti e libertà, sul lavoro, sull'uguaglianza e sulle pari opportunità per cittadini e cittadine. Una di loro – Ottavia Penna Buscemi – fu perfino candidata dal proprio partito alla carica di Presidente provvisoria della Repubblica, carica che poi andò a Enrico De Nicola.
“Il cammino percorso in meno di un anno è stato difficile: ma le nostre donne hanno bruciato le tappe. Esse continuano la loro opera, ad esse va l’elogio e la fiducia delle donne italiane, di tutti gli italiani che sperano e credono nella rinascita democratica del nostro Paese”. Parole di Nilde Jotti, che, tra le più brillanti menti che si siano mai sedute nel nostro Parlamento, fu come noto la prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Camera dei Deputati, rimanendovi ben tre legislature.

Nel 1948, con le prime elezioni politiche, le donne costituivano il 5% dell’assemblea parlamentare. Dopo ben 30 anni, nel 1976, superano la soglia delle 50 elette, e dopo altri 30 anni, nel 2006, diventarono più di 150. Il maggior aumento di elette c’è stato nel 2013, ed oggi le donne occupano il 35% dei seggi delle Camere italiane (abbiamo 231 deputate e 112 senatrici).
Abbiamo avuto tre donne Presidenti della Camera e solo una Presidente del Senato; mai una Presidente del Consiglio dei Ministri e mai una Presidente della Repubblica. Su oltre 1500 incarichi di ministro in 65 differenti governi, fino al 2018, le donne ne hanno ricoperti 83.
Non c’è dubbio, quindi, che la presenza delle donne in politica sia aumentata, ma se compariamo i nostri numeri con quelli del resto dell’Unione Europea non c’è molto da esultare, o almeno c’è ancora molto da fare. In base ai dati pubblicati dallo European Parliamentary Research Service (EPRS) a marzo 2019, primi in classifica sono, come sempre, i paesi nordici, Svezia e Finlandia, ma un grande progresso è avvenuto in Spagna, il cui Congreso de los Diputados conta ora ben il 44% di donne. Seguono Belgio, Danimarca, Austria, Francia e Portogallo, prima di trovare l’Italia con il suo 35%. Ultime in classifica Cipro (18%), Malta (14%) e Ungheria (12%).
Ma non è solo una questione di numeri. È soprattutto una questione di punti di vista: le donne, con la propria presenza in Parlamento e la propria storia – che è stata diversa da quella degli uomini, è inutile negarlo -, possono portare un punto di vista differente nelle assemblee, stimolare un nuovo dibattito, nuove riflessioni, che mai come in questo momento storico appaiono necessarie. Dobbiamo rivendicare la nostra differenza per combattere le discriminazioni che ci vengono rivolte.
Sento spesso dire – anche da esimi intellettuali - che non è così facile trovare donne disponibili a completare le liste elettorali (laddove già sarebbe interessante riflettere sul significato implicito del verbo “completare”) e che le stesse donne non votano le donne; più raramente sento, però, riflettere su quanto la vita delle donne sia costellata da aspettative sociali secondo cui è scontato che gravi su di loro il peso maggiore nel conciliare vita familiare e lavorativa. E già questo, da solo, spiega – ma evidentemente non in maniera così evidente da essere compreso dai più – il perché certe professioni di alto livello, prestigio e impegno, non è che non interessino alle donne, ma anche quando hanno la possibilità di arrivarci, risultano difficili da concretizzare nella pratica di tutti i giorni.
Non è di molti anni fa la scandalosa obiezione di Guido Bertolaso alla candidatura di Giorgia Meloni alla carica di Sindaca di Roma - “Deve fare la mamma” -, seguito a ruota da Silvio Berlusconi che per giustificare quell'affermazione aggiunse che “una mamma non può dedicarsi a un lavoro che la impegna per 14 ore al giorno”. In un Paese in cui però, di solito, i figli si fanno in due, nessun’obiezione viene mai rivolta ad un papà molto impegnato nel lavoro pur alla vigilia della nascita dei suoi figli. E allora aveva – e ha – ragione l’allora ministra Lorenzin che chiosò la polemica dicendo: “Questo Paese non è per le donne. Ciò che sta accadendo in questi giorni è incredibile, rivela una misoginia di fondo”.
Secondo gli ultimi dati del Censis, in Italia metà delle donne non ha un impiego fuori casa, contro il 75% degli uomini occupati, posizionandoci così all'ultimo posto (l’ultimo posto!) nella classifica europea. Non solo: una donna occupata su tre (il 32,4%) ha un impiego part-time, mentre nel caso degli uomini questa percentuale si riduce all'8,5%. È la mentalità che vede la donna “sacrificarsi per la famiglia” a determinare questo imbarazzante divario. Non basta imporre delle quote rosa fucsia o bordeaux per ottenere la vera uguaglianza; quella arriverà solo con un profondo cambiamento di mentalità collettiva.

Però “la politica non è un mestiere, è una missione” sosteneva Lina Merlin. La politica non è una professione, o certamente non è una professione come le altre. Ma quanti e quante, oggi, hanno questa consapevolezza? Forse, se si recuperasse questa consapevolezza, se si tornasse a pensare che può e deve fare politica chi in coscienza sente di poter dare un proprio serio contributo al progresso materiale e morale di un Paese, forse allora non solo si comprenderebbe davvero l’importanza della presenza femminile in politica, ma si costruirebbe per i bambini e le bambine un Paese degno di essere abitato.

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