Domenica, 21/10/2012 - Napoli, 19 ottobre 2012. Dopo tre anni e mezzo e due gradi di giudizio nel processo a Renato Valboa, la sentenza è di non perseguibilità per incapacità di intendere e di volere. La “pena” inflitta è dieci anni di detenzione in una struttura psichiatrica. Il sopravvenire di “miglioramenti” nello stato mentale dell’ex detenuto, valutazioni su incompatibilità tra lo stato del paziente e la struttura designata potrebbero stravolgere quanto stabilito nell’udienza conclusiva di oggi.
La sentenza contraddice totalmente la sentenza in primo grado. Le numerose confutazioni alle perizie psichiatriche e la minuziosa decostruzione degli elementi che ipotizzano lo stato di incoscienza all’atto del crimine, argomentate dalle avvocate Giovanna Cacciapuoti e Carmen Scarpato, non sono state ritenute fondate dal Tribunale.
I fatti e le sentenze a volte configgono tra loro, quasi sempre quando si tratta di processi per femminicidio, stupro, violenze.
Per definire quanto si è avverato stamani si potrebbe usare sarcasmo, ironia, satira nella misura in cui si è disincantate, indignate oppure sfiduciate. Ma per definire quello che è successo stamattina è meglio usare l’eloquenza dei fatti.
Renato Valboa è stato ritenuto responsabile quando ha tentato di uccidere a coltellate la prima moglie, riducendola in fin di vita. Fu condannato a sei anni e, per quanto salti agli occhi l’incongruenza della condanna rispetto al crimine, evidentemente l’uomo fu ritenuto responsabile.
Nella prima sentenza per la soppressione a colpi d’ascia di Fiorinda fu condannato, reo confesso, a sedici anni. Nel ricorso in appello questi due fatti, la prima condanna per tentato omicidio e la seconda per femminicidio, sono divenuti elementi da una parte irrilevanti, e sorprendentemente il primo tentativo di uccidere un’altra donna una prova dell’insanità mentale del Valboa.
Il tremendo avvertimento a Fiorinda “non andrò in galera perché so fare il pazzo”, un’ulteriore discolpa per “il colpevole non perseguibile”.
Le sentenze per femminicidio, in Italia sono quello che sono. Le strutture carcerarie ospitano ammalati, tossicodipendenti, disperati in fuga dalle guerre. Gli ospedali psichiatrici sono pieni colpevoli non perseguibili. Gli arresti domiciliari, le pene alternative, l’assegnazione ai servizi sociali sono le soluzioni alle quali possono accedere gli assassini del Circeo, l’avvocato Previti e le vittime della “magistratura politicizzata”.
In qualche caso un seriale patologico può uccidere, in qualche caso chi stupra può essere malato, ma ormai è assodato che le donne non sono uccise e stuprate per follia. Sono uccise e stuprate perché sono donne, presunta proprietà di uomini che mentre uccidono e stuprano sono consapevoli di poter essere trattati con clemenza o addirittura non dover pagare mai.
Oggi una diciassettenne è stata uccisa a Palermo perché difendeva la sorella, ferita gravemente, dal suo ex fidanzato. Qualcuno giurerà che era un bravo ragazzo in preda ad un raptus. Nel processo che giudicherà questo ultimo crimine, se nulla cambierà, dovremo ripetere quello che diciamo oggi.
C’è un mare che divide la giustizia e la vita delle donne, in un paese dove c’è davvero qualcosa che non funziona nel sistema giudiziario.
Le donne che chiedono giustizia per Fiorinda, per la studentessa de L’Aquila, per ognuna e per tutte sono il punto di partenza per cominciare a parlare di lotta al crimine e per poter affermare che la legge è uguale per tutti.
Stefania Cantatore (UDI di Napoli)
Segue il commento di Elvira Reale, che naturalmente condivido e sottoscrivo. Stefania Cantatore
L’esito ingiusto di uno dei tanti processi per femminicidio, quello a carico dell'assassino di Fiorinda ci parla di quello che è avvenuto in questi anni nelle menti dei giudici e nei tribunali..
Oggi ci troviamo davanti ad una nuova formulazione del delitto d’onore ( abrogato nel 1981): il così detto delitto passionale o d’impeto. Quando l'assassino dichiara di non ricordare gli atti compiuti e di non essere stato cosciente al momento dell’atto omicidiario, il giudice chiama il tecnico ad attestare la presenza dell’incapacità di intendere e volere .
Il tecnico a questo punto “si sostituisce” al giudice e al linguaggio della giustizia si sostituisce il linguaggio tecnico, i cui fondamenti scientifici non sono sempre certi, che bypassa le prove e le testimonianze processuali e, attraverso improbabili diagnosi, giunge alla valutazione di incapacità di intendere e volere limitata all'evento.
Incapacità non di tutto, infatti l’omicida confesso può lavorare, avere famiglia e esser capace di ogni atto della vita quotidiana, ma incapace solo al momento dei fatti, dell’omicidio
. Una così specifica e chirurgica, quanto improbabile, incapacità offusca ogni altra discussione su prove e testimonianze e soprattutto fa tabula rasa della consapevolezza sociale (tanto sostenuta dal Consiglio d’Europa, dalle Nazioni Unite e da tutti gli organismi internazionali politici e sanitari) che i femminicidi , gli omicidi compiuti dagli uomini contro le donne,sono delitti tutti meditati e pre-meditati dagli uomini-
Le radici di questi crimini affondano nei rapporti instaurati con uomini che considerano le donne oggetto e possesso personale. Il femminicidio non può essere assunto, da un tecnico di turno, per lo più incompetente nella violenza di genere, come sintomo di una incapacità di intendere e volere; esso è invece per lo più effetto di una precisa volontà ed intenzionalità maschilefinalizzata a punire le “proprie” donne che disobbediscono e si allontanano dalla relazione violenta.
Le nuove forme striscianti del “delitto d’onore” che, avallate da tecnici che non hanno competenze specifiche, rendono la giustizia incapace di perseguire con regole e strumenti propri (prove e testimonianze) i reati contro le donne e di difendere le altre donne dai nuovi reati. Questo è il motivo per cui noi oggi ci troviamo a contare le morti ed a chiederci perché aumentano: aumentano perché il femminicidio viene tollerato, sottovalutato, considerato impropriamente delitto passionale ( dai mass media) e d’impeto ( dagli psichiatri e dai giudici) con l’esito di rafforzare negli uomini un senso di impunità ottenuto anche con la complicità oggettiva di un sistema psichiatrico-giudiziario che fa uscire il delitto d’impeto dalle aule di tribunale, dai processi giusti, dalle sentenze “provate” e lo affida all’osservazione ed alle cure di un contesto tecnico, salvifico solo per l’omicida.
Questa ultima intollerabile sentenza ci impone una riflessione e nuove iniziative.
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