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Ostaggio della vallata di Fausta Genziana Le Piane

Ostaggio della vallata di Fausta Genziana Le Piane

La poesia di Ostaggio della vallata è caratterizzata da un instancabile processo di assimilazione del soggetto lirico alle figure del mito e agli elementi della natura all’interno di un movimento senza pause, che intende mimare quello della vita

Lunedi, 06/06/2016 - Ostaggio della vallata di Fausta Genziana Le Piane



La prima cosa che salta con evidenza allo sguardo, mentre si sfoglia la silloge poetica Ostaggio della vallata di Fausta Genziana Le Piane , è l’insolita struttura: essa appare, infatti, come un monile “incartato” dentro un involucro altrettanto prezioso firmato da un poeta di sicura e ampia notorietà, il quale non solo scrive sia la prefazione che la post-fazione, ma chiosa i testi dell’autrice con delle note di grande finezza estetica e acutezza interpretativa, che, spesso, somigliano a dei brevissimi elzeviri: così, per esempio, può essere letta la nota a pag. 90, che convoca in poche righe non pochi “mostri sacri” della letteratura europea, o l’altra a pag. 79 sugli haiku, o quella a pag. 60, che in poche cenni spiega l’arte di Klee, Kandinskij, Chagall.

La poesia di Ostaggio della vallata è caratterizzata da un instancabile processo di assimilazione del soggetto lirico alle figure del mito e agli elementi della natura all’interno di un movimento senza pause, che intende mimare quello della vita stessa. Perfino le metafore, più che figure retoriche nate da uno slancio immaginifico di ogni possibile relazione fra cose anche lontane, vogliono piuttosto marcarne la prossimità, la mancanza di netti confini. Credo, infatti, sia questa la visione del mondo che una poetessa così sorprendentemente cangiante nei suoi umori ed esiti stilistici come Fausta voglia comunicare ai lettori.

Se, per esempio, si considera il tema dell’Amore (quello per l’amante-amato, per i figli, gli amici, i luoghi), così dominante all’interno dei testi, è facile rendersi conto dei numerosi passaggi e trasalimenti da uno stato emotivo all’altro: dalla gioia del possesso al dolore del distacco, dalla felice pronuncia di un “noi” ad una delusa scissione dell’ “io” e del “tu” persi e frantumati nella solitudine.

Questa percezione del proprio essere e dell’esistente come un inafferrabile trascolorare trova il suo scenario più adatto e suadente nell’orchestrazione del tempo-spazio all’interno degli elementi e dei fenomeni naturali: Fausta è una sensibilissima osservatrice di boschi, vallate, cieli, uragani, fioriture primaverili e fruttificazioni in rapporto alla luce delle ore (dal chiaro abbaglio del sole alle ombre notturne) e all’alternarsi delle stagioni. I colori, infatti, sono fastosamente presenti in questi versi sempre pieni di vitalità, così che, anche quando mettono in scena il dolore e la morte, è sempre l’esistente ad essere esaltato.

Le stesse figure del Mito, strappate alla stasi di uno stereotipato repertorio di immagini, si adattano alla sensibilità dell’autrice che le nutre di una sostanza più leggera e quotidiana: Vulcano ha la sua officina nel cuore dell’autrice, Pan dorme “con i piedi incrociati/ sulla buccia di un pomodoro”, e Selene siede accanto a Fausta, lasciando, come lei, dondolare i piedi “da un ramo d’ulivo”.

Ormai desacralizzati, quegli dei fanno parte di un immaginario del tutto personale, e non appaiono dissimili dai personaggi del repertorio fiabesco, spesso anch’esso “capovolto”: c’è, per esempio, un richiamo alla favola di Pollicino nel testo in cui l’autrice dice di spargere “briciole di pane” sul sentiero non per sé, tuttavia, ma nella speranza che l’amato trovi il modo di ritornare a lei. Le fiabe, poi, trascolorano in certe atmosfere canzonettistiche (come in “Fumo”, che ricorda la celeberrima “Smoke in the eyes”) e quest’ultime in certe suggestioni iconiche suggerite da celebri dipinti.

Fausta, fra l’altro, potrebbe veramente essere annoverata fra quella schiera di poeti che sanno usare le parole per “disegnare” cose e paesaggi, secondo il motto oraziano “ut pictura poesis”, con una vivacissima e gradevole freschezza, ormai così rara nella poesia contemporanea. Un esempio tra i più riusciti è il testo “Oliva”, che così recita: “Oliva/verde orecchino/ di smeraldo/ perso nella chioma di un albero”, in cui la drupa si trasforma, come scrive Perilli, commentatore coltissimo e delizioso dei testi di Genziana, in un “monile di Natura, una vegetale concessione alla vanità, che si agghinda di Beltà”, tanto più se pensiamo a quell’altro “orecchino di turchese” (pag. 24) anch’esso prossimo alla chioma di una donna innamorata, che, durante le ore dell’amore, si è impigliato nelle frange di una coperta damascata.

Ma certamente il testo più curioso e sorprendente, fra quelli dedicati alle piccole cose quotidiane (in cui quest’ultime sono fatte oggetto di una trasposizione opposta a quella subita dagli elementi del mito - che, come si è detto, viene demistificato - fino ad elevarsi alla funzione di emblemi) è il “Chicco di caffè”. Per comprendere la messe di metafore che la poeta fa fiorire attorno ad esso con una sapienza inventiva che ricorda certi testi del manierismo barocco, bisogna partire dalla supposizione che l’aroma ed il gusto del caffè abbiano accompagnato quotidianamente il risveglio alla vita dell’autrice, la quale, nel sorbire la nera bevanda, mattino dopo mattino, avrà guardato fuori dalla finestra della sua casa qualche “ramo ondeggiante”, o un “passero stanco del cammino”, o una “farfalla sperduta nell’aria”, o, ancora, ore trasparenti ed altre opache, primavere ed inverni. Non c’è da meravigliarsi, allora, che proprio questo testo chiuda la sezione “Nell’incavo caldo”, dedicata al tempo dell’infanzia e della prima giovinezza, in cui sono affettuosamente ricordati la casa, il paese natale, i Natali luminosi, il padre, i parti.

Man mano che ci si avvicina all’ultima sezione della silloge “Torneranno le parole”, il tono diventa più malinconico, i paesaggi più statici, più vuoti, meno colorati; la stanchezza sembra prevalere sul desiderio e la vitalità. Si rafforza, invece, la consapevolezza del dono poetico: “La mia Poesia/ mi piace portarla con me ovunque. Nascosta. Partecipo alle cose in modo diverso” (Poesia, pag. 127).

Così commenta questo testo Perilli: “Vera e propria Dichiarazione di Poetica abile e dolce, capace di aggirare le teorizzazioni culte, ma anche di dribblare con eleganza la retorica smaccata dell’ispirazione, la predestinazione che si vorrebbe imputare o comunque attribuire all’Arte…La Poesia è guardare le stesse cose in modo diverso…Ed è quindi la ricchezza “domestica”, la novità introiettata – la rivoluzione quotidiana di questo sguardo”.



Franca Alaimo

2 Giugno 2016

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