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Le ragazze di <benin City

Le ragazze di <benin City

l'articolo approfondisce la realtà della prostituzione delle ragazze nigeriane a Roma, ricostruendo il sistema di reclutamento e relativi ricatti

Martedi, 03/11/2015 - Le ragazze di Benin City

Le nuove schiave in Italia



di Rosella Bennati







Basta uscire di casa. Se si abita in una città, piccola o grande che sia, si vedono subito,le ragazze di Benin City : sono sempre in strada, d’estate e d’inverno, anche se piove o nevica, e a guardarle bene le loro facce di ebano tradiscono una età sempre più acerba.

Sono le nuove schiave, e vivono la loro condizione disperata sotto gli occhi indifferenti di noi tutti…

Ma dov’è, Benin City? La nuova prostituzione africana viene quasi tutta da lì, dalla capitale dello stato di Edo, in Nigeria. E’ un porto sul fiume Benin con un passato di opulenza, quando nel sedicesimo e diciassettesimo secolo i trafficanti portoghesi e olandesi si arricchivano con la vendita degli schiavi. Attorno alla città, la costa si chiama ancora così, “Costa degli schiavi”, in memoria di un passato che sembra lontano, ma che ora sta riemergendo, anche se sotto altre forme.

La nuova schiavitù è basata su un grande business, quello della prostituzione, e le nuove schiave non sono trasportate in catene, ma vengono adescate con inganni e lusinghe, con una forma di subdola violenza psicologica basata sull’ignoranza e la povertà. La Nigeria è ricca di risorse, ma la maggioranza della gente è povera. I televisori, unico piccolo lusso nei baracchini di lamiera, offrono quotidianamente lo spettacolo allettante di una Europa ricca, un paese di Bengodi dove tutte le ragazze sognano di andare. E l’Italia è una delle mete più agognate.

A quel punto, il business può partire: dei trafficanti locali (gli “italos”, come vengono chiamati i faccendieri che lavorano in collaborazione con le nostre mafie) avvicinano i genitori delle ragazze e chiedono di poter portare le loro figlie in Italia, dove un lavoro ben retribuito potrà assicurare il benessere a tutta la famiglia. Del resto, basta che guardino qua e là i loro vicini di casa che hanno già mandato ragazze all’estero, ed ora hanno il televisore nuovo e la lavatrice.

Sanno le ragazze e i loro genitori di che lavoro si tratta? Qualche volta no, ma spesso sì: purtroppo, il miraggio di una vita migliore acceca tutti, e a volte anche la dignità è un lusso.

Ma gli “italos” non si accontentano di questa disponibilità: occorre stringere intorno ai polsi della ragazza una catena virtuale, ma implacabile. Scatta così la firma di un contratto davanti ad un notaio, con l’impegno al rimborso di un forte debito, da trenta a ottantamila euro, una cifra enorme per quella povera gente.

E per rendere ancora più stretta quella catena al contratto si aggiunge un rito di magia nera voodooo con cui la fanciulla viene legata indissolubilmente ai suoi impegni nei confronti dell’organizzazione criminale, pena terribili conseguenze per lei e la sua famiglia.

Comincia il lungo viaggio verso l’Italia: per poche fortunate, un volo in aereo, ma per la maggioranza un massacrante trasporto in vecchie jeep, autobus e carrette del mare, che può durare mesi, e nel corso del quale la ragazza perde la sua dignità, e diventa merce, soggetta a stupri e violenze.

Questo è forse il momento più tragico per la ragazza: la sua strada è senza ritorno, anche se dal sogno si deve passare ad una realtà durissima.

Arrivate in Italia, le nuove schiave vengono smistate in varie città, dove alla stazione ognuna di esse è attesa da una figura essenziale nel business: la “maman”

La maman è una signora dall’aspetto inizialmente materno e rassicurante che accompagna la ragazza in un appartamento dove vivono altre giovani nigeriane, quasi tutte di Benin City, Si crea così una piccola comunità, diretta dalla maman, che si rivela ben presto autoritaria e spesso crudele, con un potere assoluto sulle ragazze, che devono quotidianamente consegnarle il danaro guadagnato sul marciapiede. L’appartamento è in realtà una prigione, dove le ragazze vivono fuori dal mondo che le circonda. Attraverso questa rete di case-prigione gestite da maman carceriere il business prospera tranquillamente, senza troppi rischi e intrusioni.

Ma chi sono, queste maman? Quasi sempre ex prostitute che dopo essere riuscite a saldare il loro debito decidono di passare a far parte dell’organizzazione. Le vittime si trasformano così in carnefici, con un terrificante processo di osmosi che trasforma la linea del crimine in un circolo vizioso.

E le altre?Che fine fanno? Le più sfortunate muoiono giovani per malattie o percosse, ma le altre sopravvivono e finiscono con abituarsi alla loro vita da schiave, con un debito che sembra non finire mai. Quelle che riescono ad estinguere il debito decidono spesso di restare e di “mettersi in proprio” o diventano maman. Le ragazze che tornano in Nigeria sono poche: spesso con i loro guadagni aprono un negozio o iniziano un’altra attività, ma non mettono in guardia le giovani connazionali e preferiscono non parlare delle brutte avventure passate, di cui si vergognano. Anzi, spesso finiscono col vantarsi della loro esperienza in Italia, incoraggiando così il protrarsi del fenomeno della prostituzione.

Quante sono, le giovani schiave nigeriane in Italia? Tante, e tendono ad aumentare.

L’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM) denuncia che nel 2014 sono arrivate in Italia più di 1200 nigeriane, mentre nel 2013 ne erano arrivate meno di 400, con un incremento del 300%.

L’OIM nel 2014 ha costituito due team “anti-tratta” attivi in Sicilia e in Puglia, per identificare le vittime di tratta e informarle dei loro diritti prima che possano essere contattate dai loro sfruttatori. Ma non è un compito facile: le ragazze sono diffidenti e terrorizzate dai riti voodoo con cui sono state condizionate prima della partenza.

L'Italia è la meta preferita dalle organizzazione internazionali che gestiscono la tratta delle prostitute. Perché? Anzitutto, a causa della vicinanza con le coste africane, ma anche per un’altra ragione: in Italia l'attività della prostituzione non è ancora regolamentata. Sono allo studio dei progetti di legge ,ma l’argomento è delicato e soggetto a diverse speculazioni politiche.

E intanto, cosa fare?Esistono molte Associazioni che si battono per migliorare l’esistenza delle prostitute-schiave. Una delle più antiche è la Comunità Papa Giovanni XXIII, nata nel 1990, che aiuta le vittime del racket della prostituzione con l’assistenza di volontari che formano le cosiddette “unità di strada” e cura l’accoglienza delle ragazze in famiglie e case famiglia, L’Associazione affianca a queste attività una diffusa informazione corretta sul fenomeno, per sensibilizzare l'opinione pubblica e le istituzioni sulla necessità di stroncare questa odiosa nuova schiavitù.

Ma non è la sola Associazione che si batte contro la tratta: ce ne sono molte, da “Slaves no more”, che opera contro il traffico di esseri umani con la partecipazione di religiosi e laici, all’Associazione LULE che gestisce l’attività di raccordo con il Numero Verde Nazionale 800290290, un servizio che garantisce una risposta 24 ore su 24 alle telefonate di richiesta di informazione e di aiuto, e offre consulenza alle vittime.

Una delle Organizzazioni più significative è certamente l’Associazione "Le ragazze di Benin City", fondata da Claudio Magnabosco. La storia di questa Associazione è davvero emblematica, una storia di amore e di coraggio: il suo fondatore è sposato con Isoke Aikpitanyi, una ragazza nigeriana vittima di tratta, che nel 2000 a Torino fu massacrata di botte dai suoi aguzzini quando decise di sottrarsi al suo destino di schiava. Isoke rimase in coma per tre giorni , ma poi si salvò e, aiutata dal suo attuale marito, decise di dedicare la sua vita all’aiuto alle sue connazionali ridotte in schiavitù. Nel 2007 Isoke ha scritto insieme alla giornalista Claudia Maragnani il libro “Le ragazze di Benin City”, una raccolta di testimonianze di vittime della tratta, seguito nel 2011 da “500 storie vere”, altre cronache impietose di vita vissuta raccontate a Isoke dalle sue connazionali. Isoke è chiamata spesso a convegni, dibattiti e trasmissioni televisive: è diventata un simbolo del riscatto di una vittima che anziché trasformarsi in carnefice ha deciso di battersi per aiutare le altre..

“Le ragazze che arrivano in Italia non sono niente”, ha scritto Isoke.” sono merce di proprietà della mafia nigeriana e delle maman che le hanno comperate o le gestiscono per conto di terzi. Sono clandestine, spesso analfabete, spesso minorenni, si trovano in un paese nel quale non conoscono nessuno, e non conoscono la lingua per farsi sentire. E le cose non cambiano, da circa vent'anni il governo italiano finanzia progetti contro la tratta e a sostegno delle vittime, ma i risultati non si vedono: solo una su dieci riesce a uscire da quella trappola.”

Una su dieci. Poco, davvero poco. E noi, cosa possiamo fare? Anzitutto, dobbiamo prendere atto di un fenomeno che differisce dal “mestiere più antico del mondo”: questa non è solo prostituzione, è schiavitù.

Che fare? Il progetto di Isoke Aikpitanyi e di Magnabosco ci offre qualche spunto, sollecitando azioni concrete su quattro fronti:

1 –sostegno finanziario alle organizzazioni del volontariato che lottano per il recupero delle vittime della tratta;

2 – appelli alle istituzioni, sollecitandole a non risolvere il problema solo con il rimpatrio delle ragazze;

3 – misure nei confronti dei clienti, recuperandoli ad un comportamento responsabile

4 –sensibilizzazione dell’opinione pubblica

E’ abbastanza? Forse no, ma è meglio che girare la testa dall’altra parte…

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