Martedi, 31/01/2017 - Sono trascorsi quasi 40 anni da quando Alma Sabatini scrisse le sue “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua” (1987). Molta acqua è passata sotto i ponti e, seppur con lentezza, la declinazione al femminile di mestieri e cariche è sempre più largamente condivisa. Mentre ministre e sindache sono al lavoro insieme a tante ingegnere, la pressione dei movimenti delle donne sul piano politico non si è mai arrestata e ha accompagnato l’elaborazione teorica di cui l’ultimo libro di Cecilia Robustelli è ottima espressione. Pubblicato nell’ambito della collana del quotidiano ‘la Repubblica’ dedicata al linguaggio (l’Italiano. Conoscere e usare una lingua formidabile),”Sindaco e sindaca: il linguaggio di genere” è il quarto di un ciclo di quattordici volumetti che hanno esaminato l’evoluzione della nostra lingua e l’uso di neologismi in relazione a vari ambiti tematici. Il gruppo L’Espresso non a caso ha affidato il compito di scrivere il libro a Cecilia Robustelli, docente di Linguistica italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia, studiosa del linguaggio di genere e, per la materia, collaboratrice con l’Accademia della Crusca, con il Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio e con il Miur. Il libro è andato esaurito rapidamente ed è stato molto apprezzato anche a Montecitorio. Infatti il Direttivo dell’Intergruppo donne della Camera dei deputati si è autotassato e lo ha regalato per Natale a tutti i deputati e le deputate: un’esplicita sollecitazione a superare le resistenze al cambiamento per un uso non sessista della lingua.
In 6 agili capitoli, l’autrice spiega in modo chiaro i termini fondamentali della questione e fornisce alcuni elementi essenziali conducendo chi legge negli antri della lingua e nei passaggi logici che determinano i cambiamenti. Dalla ‘sfida dei diritti’ con il loro impatto anche nella lingua, fino alle inevitabile modifiche che conquistano spazi pubblici e condivisi, arrivando ad interrogare persino il linguaggio delle istituzioni. E se non c’è imbarazzo ad usare poltronismo o fotodepilazione bisogna domandarsi quali sono le ragioni che impediscono di usare assessora e avvocata.
Nella sostanza, però, il libro non intende essere “un decalogo o un’imposizione, ma un contributo alla riflessione” ha scritto nella postfazioneClaudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, rilanciando un concetto affermato dall’autrice, che scrive “la lingua non si modifica a comando, occorrono decenni perché nuove forme e usi si radichino e secoli perché modificazioni più profonde prendano piede”. La cosa importante, sottolinea Robustelli, è lavorare per accrescere “la consapevolezze dell’importanza degli effetti che il linguaggio può avere nella lotta alla discriminazione e costruzione dell’identità di genere”.
Professoressa, dalla pietra miliare che pose nel 1987 Alma Sabatini, il processo di cambiamento è stato lento ma i frutti cominciano ad arrivare. Solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile, ad esempio, un impegno così importante da parte di un grande gruppo editoriale. Quali riflessioni si sente di fare?
Dopo l’esplosione di interesse dovuta alla pubblicazione del lavoro di Alma Sabatini (che a dire il vero fu cavalcato dalla stampa anche con toni ironici!) l’attenzione al possibile impatto discriminatorio nei confronti delle donne legato all’uso del linguaggio in effetti è rallentata. A partire dal Duemila, però, ho notato che è rimasta, anzi, è addirittura cresciuta, in un ambito forse inaspettato: quello istituzionale. Province e Comuni, anche piccoli, che erano impegnati nell’operazione di “semplificazione linguistica” raccomandata da Direttive e campagne nazionali, hanno inserito in quegli anni nel lavoro di aggiornamento della loro documentazione anche l’attenzione al “linguaggio di genere”. Di questo ho esperienza diretta perché ho personalmente condotto molti corsi di formazione e di aggiornamento sul tema: ricordo i Comuni di Pisa, Livorno, Firenze, Trento, Trieste, Cervia, Modena, Aosta, Bologna, Cuneo, Grosseto, Latina, Lucca, Parma, Siena, Torino. E nell’ambito del progetto Genere e linguaggio promosso da Comune di Firenze e Accademia della Crusca, con cui collaboro da molti anni, ho redatto le prime Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio istituzionale. Da lì l’attenzione è cresciuta, anche per il diretto impatto con la cittadinanza che avevano i documenti “rivisti”. La stampa locale si è interessata a queste iniziative e ha ripreso la riflessione allargandola all’uso discriminante del linguaggio giornalistico. Con l’Accademia della Crusca ho condotto alcuni incontri sul tema per l’Ordine dei Giornalisti, e poi nel 2014 ho pubblicato Donne Grammatica e Media, una vera e propria guida pensata per giornalisti e giornaliste, promossa dall’Associazione G.i.U.L.i.A. Nel 2016 la stessa Accademia ha aderito all’incontro sulla lingua italiana Petaloso sarai tu, organizzato insieme al quotidiano la Repubblica, che ha previsto anche una discussione sul linguaggio di genere tra Gianrico Carofiglio, Filippo Ceccarelli e la sottoscritta. Ed è intervenuta più volte in rete e sulla stampa, anche attraverso il presidente dell’Accademia Claudio Marazzini e prima con Nicoletta Maraschio, oggi presidente emerita. Anche la presidente della Camera Laura Boldrini ha preso posizione. I tempi evidentemente erano maturi per una iniziativa ad ampio raggio sul tema ma più in generale sulla lingua italiana: ed è così che è nata l’iniziativa editoriale L’italiano. Conoscere e usare una lingua formidabile, di Accademia della Crusca e Repubblica, che ha previsto una serie di volumetti dedicati ciascuno ad approfondire un aspetto dell’italiano. Credo che sia veramente significativo l’aver deciso di dedicarne uno, il quarto, al rapporto tra lingua e genere, inteso in senso socioculturale e grammaticale: significa riconoscerne l’importanza per l’uso della nostra lingua e quindi per la comunicazione. E io vorrei che servisse anche a far chiarezza su questioni che periodicamente vengono alla ribalta, come “le nuove forme sono brutte”; “si può usare il maschile come neutro”; “non so se questa forma è corretta”, ecc, e a far capire che si tratta di una questione seria, che ha alla base riflessioni di tipo linguistico e culturale. Poi se ne può parlare anche al bar, ci mancherebbe. Ma con cognizione di causa!
Come spiega le resistenze che permangono nell’uso del femminile per alcuni mestieri o cariche pubbliche, anche da parte delle donne; quale impatto ritiene possa avere un’affermazione come quella fatta recentemente dal presidente Giorgio Napolitano?
L’uso del genere femminile per i termini che indicano ruoli istituzionali e professioni ritenute di prestigio è nato quando se ne è presentata la necessità, cioè quando le donne hanno cominciato e a ricoprirli e a svolgerle. Ma la loro diffusione è stata lentissima, perché esiguo era il numero delle donne che raggiungevano le posizioni che li avrebbero richiesti. Inoltre il concetto di “parità” tra uomo e donna è stato a lungo interpretato come adeguamento al modello maschile: essere definita con un titolo maschile significava il riconoscimento della parità con l’uomo, mentre quello femminile suonava inferiore. Per tutto questo è rimasta l’abitudine a usare le forme maschili: direi quindi che si tratta spesso di una questione generazionale che spiega, e addirittura parzialmente giustifica, l’atteggiamento di rifiuto da parte di donne “grandicelle”. Del resto è l’uso che fa la lingua, non la si può certo imporre. Per questo mi permetto di allargare questa interpretazione anche alle parole del presidente emerito Giorgio Napolitano. Quando si tratta di persone giovani, invece, dobbiamo chiederci se ciò non dipenda da una scarsa conoscenza del funzionamento della lingua italiana e del suo lessico, e anche di una insufficiente educazione al concetto di genere. C’è poca consapevolezza di ciò che si lega all’uso del linguaggio: i testi scolastici, per esempio, dovrebbero essere in questo senso più adeguati, e anche chi insegna dovrebbe avere maggiori possibilità di aggiornamento sul tema. Per fortuna il c. 16 dell’art, 1 della legge 107/2015 'La buona scuola' contiene l’impegno a promuovere “nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”, e nelle Linee guida elaborate dal Tavolo tecnico promosso dal Miur, di cui ho fatto parte, si sottolinea la necessità di usare un linguaggio adeguato a questo fine: mi auguro che esse vengano diffuse quanto prima e che da ciò scaturiscano iniziative concrete al riguardo.
Accanto alle spiegazioni tecniche, nel libro lei pone molta attenzione anche alle espressioni in cui si annidano offese per le donne: dai proverbi alle ‘gallinelle’. Sembrano innocue, e talvolta persino affettuose, quindi sono ancora più difficili da interrompere...
Il modo con cui si parla delle donne risente, anche se spesso inconsapevolmente, di stereotipi che implicano il riferimento a modelli culturali nei quali l’uomo è la figura dominante. All’uomo forte e sicuro si contrappone la donna debole, incerta, al maschio che dà protezione la donna che la chiede, e se per il primo si sprecano i toni trionfalistici per la seconda (e non a caso uso quest’ordine, da dominante a dominata!) se ne adottano di tenui, sfumati, Quasi se si dovesse essere gentili anche con il linguaggio verso queste “povere donne”: ma ciò conferma la loro considerazione come esseri subalterni rispetto all’uomo e a volte anche una ripartizione di ruoli ancora pesantemente tradizionale, inaccettabile nella società di oggi. Per esempio, proprio il cortese apprezzamento del lavoro di cura delle donne verso le persone anziane, la casa, i bisogni della famiglia, implica il riconoscimento che si tratta di una loro responsabilità, di una serie di doveri e ruoli che si sommano a quelli già assunti magari in ambito professionale o istituzionale. E anche l’elogio che ricevono per attività che ancora, sotto sotto, vengono considerate maschili, nasconde il riconoscimento della loro straordinarietà perché vedono protagonista una donna. Dettagli sull’età, lo stato civile, le caratteristiche fisiche, o l’uso del solo nome di battesimo, ricorrono nelle descrizioni di attività professionali o istituzionali solo quando la protagonista è una donna: a prima vista sembrano informazioni innocue, anzi, segni di ammirazione o addirittura complimenti, ma in realtà spostano l’attenzione verso la sua vita personale. Anche in questi casi quindi, e non solo nell’uso del genere maschile anziché del femminile, il linguaggio testimonia la difficoltà ad accettare i nuovi ruoli delle donne. Ma, come sempre, confidiamo nelle nuove generazioni...
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