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Stereotipi di genere e povertà educativa. Una riflessione a partire da 'Nessuno escluso'

Stereotipi di genere e povertà educativa. Una riflessione a partire da 'Nessuno escluso'

Il libro a cura di M. Chiara Levorato e Alice Barsanti 'Nessuno escluso. Metodi e strumenti per lo studio della povertà educativa' affronta il tema attraverso una pluralità di contributi e di approcci teorici e metodologici

Martedi, 05/12/2023 -

“La democrazia ha bisogno di persone in grado di crescere insieme e quindi trasformare la comunità e lo Stato stesso, ma per questo richiede che ognuno e tutti siano posti nella condizione di partecipare alla vita della comunità”. Questo afferma Patrizio Bianchi che è stato Ministro dell’Istruzione nel governo Draghi, nella Prefazione del volume Nessuno escluso. Metodi e strumenti per lo studio della povertà educativa. (Ed. Cleup 2023) curato da M. Chiara Levorato e Alice Barsanti. La prima è stata docente di Psicologia dello Sviluppo per più di 40 anni presso l’Università di Padova; la seconda è una laureata in Psicologia incaricata dalla Fondazione G.E. Ghirardi Onlus per l’indagine ‘Nuove e vecchie povertà educative’. Due studiose di psicologia che affrontano un tema che finora è stato indagato da sociologi/he e pedagogiste/i. Secondo le autrici il contributo della psicologia e in particolare della psicologia dello sviluppo è fondamentale per comprendere in che modo fin da subito dopo la nascita avviene l’interazione con il proprio ambiente e quali sono i bisogni che esso deve soddisfare, due aspetti che incidono fortemente nel manifestarsi della povertà educativa.

Essa è la “condizione socio-economico-culturale che impedisce a bambine/i e ragazze/i di accedere pienamente al loro diritto di apprendere e ricevere una formazione adeguata, di arricchire le proprie capacità e competenze, di progredire negli apprendimenti, di partecipare attivamente alla comunità scolastica e alla vita della collettività, di crescere attraverso una varietà di esperienze, di sviluppare motivazioni e talenti, di godere di benessere intellettuale” pag 17.

Come si vede, il costrutto di povertà educativa è complesso e multifattoriale: non esiste un'unica misura per definirlo e quantificarlo, è determinato da un insieme di fattori, non sono stabiliti univocamente gli aspetti che lo definiscono, o le componenti costitutive e, di conseguenza, non è quantificabile.

Le definizioni proposte in letteratura, di cui sopra è stata proposta la più comprensiva poiché coglie sia la dimensione di apprendimento formale e formazione scolastica, sia quella della crescita personale e relazionale, colgono ora un aspetto ora l’altro; per questo nel volume vengono riportati i contributi di conoscenza che le associazioni che operano nel nostro paese hanno proposto per la comprensione del fenomeno: Con i bambini, Save the Children, Fondazione Feltrinelli, Forum Diseguaglianze Diversità, EducAzione, Libera. È chi lavora sul campo che conosce questa realtà ed è a loro che dobbiamo guardare per comprenderla.

La scelta di focalizzare l’attenzione nei primi anni di vita è dovuta al fatto che è nel contesto familiare che avvengono i primi apprendimenti, lo sviluppo dei propri talenti, della curiosità nell’esplorare l’ambiente e della motivazione ad interagire con esso e a conoscerlo. Dunque, l’origine della povertà educativa è nel contesto familiare, anche se è con la scolarizzazione che appaiono evidenti gli effetti, in primis l’abbandono scolastico, ed è nella scuola, principalmente ma assieme a tutta la comunità educante, che possono e devono venire implementale le buone pratiche e le azioni di contrasto alla povertà educativa.

La prima azione di contrasto è la frequenza dell’asilo nido proprio perché, come si è detto, è fin dai primi anni di vita che si gettano le basi per uno sviluppo ricco e armonioso. Ebbene, l’asilo nido è un servizio che nelle regioni del sud e nelle isole è disponibile per una bambina su 10: un dato che mostra tutta l’inadeguatezza dei nostri servizi per la prima infanzia riguardo ad un bisogno come è quello di crescere in un ambiente buono, stimolante, adatto alle capacità e ai desideri di bambine e bambini piccoli. Oltre ad una inadeguatezza dei decisori politici a mettere a punto le soluzioni per incoraggiare le donne ad uscire di casa per studiare e lavorare.

È per la complessità del concetto di povertà educativa che al volume di Levorato e Barsanti hanno contribuito studiose e studiosi di diverse discipline: la statistica, la pedagogia della famiglia, la psicologia dell’inclusione sociale, l’arte musicale, la psicologia dello sviluppo del linguaggio. Ciascun capitolo muove da una diversa impostazione metodologica, alcuni sono dedicati alla definizione teorica o statistica del fenomeno della povertà educativa, altri alla definizione di azioni di contrasto. Tutti sono accomunati dalla consapevolezza che, come in tutte le forme di disagio sociale che colpiscono le persone, i rimedi vanno individuati ed applicati a molti livelli e più precocemente possibile: sappiamo che già in età prescolare le differenze nelle competenze e nelle capacità che possiamo osservare nella popolazione infantile sono da attribuire in maniera prevalente alle caratteristiche del contesto famigliare; soprattutto alla povertà economica e al basso livello di istruzione dei genitori a influenzare lo sviluppo infantile.

Dunque, i fattori di rischio più evidenti sono la condizione economica della famiglia e il livello di istruzione dei genitori – soprattutto coloro che hanno lasciato la scuola da molto giovanie hanno al massimo un titolo di scuola media inferiore e sono a rischio di analfabetismo funzionale: le due variabili - reddito e scolarità - spesso correlano perché una scarsa scolarità in genere si associa a condizioni lavorative meno buone e più precarie. Altri fattori di rischio considerati nel volume sono: la provenienza da famiglie immigrate, il genere femminile, la presenza di disabilità, l’uso eccessivo di device elettronici in età evolutiva.

Dunque, essere di genere femminile è un fattore di rischio di povertà educativa. Merita soffermarsi brevemente su questo dato. Gli stereotipi di genere sono alla base di limitazioni della libertà della persona che restringono i diritti di cui si è detto nella definizione di povertà educativa. Lo spirito cui ci richiamiamo è indicato dall’articolo 3 della Costituzione Italiana, ossia che devono essere rimossi gli ostacoli che, “limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. È fuori dubbio che gli stereotipi di genere rappresentano uno di questi ostacoli, nella misura in cui le bambine e le ragazze non vengono trattate come individui ma come appartenenti ad una categoria che, sulla base di pregiudizi e generalizzazioni illegittime, sminuiscono il loro valore.

Gli stereotipi sono preconcetti culturalmente determinati, sono pervasivi in quanto diffusi nelle interazioni sociali; di solito riguardano delle minoranze, quello che è aberrante negli stereotipi di genere è che riguardano metà del genere umano. Nel nostro paese questa ‘minoranza culturale’ che sono le donne e le ragazze è più scolarizzata della ‘maggioranza culturale’ costituita dai ragazzi e dagli uomini. Vediamo quali sono i dati rilevanti per il nostro discorso.

A 15 anni la percentuale di low performer in matematica è maggiore tra le ragazze

(25%) rispetto ai coetanei di sesso maschile. Dall’altra parte, il 24% degli alunni maschi non raggiunge competenze minime in lettura, contro il 18% delle femmine. La disuguaglianza di genere si riscontra anche per livelli più alti di competenze nei test PISA. In matematica, ad esempio, il 13% dei ragazzi appartiene alla categoria dei top performer contro l’8% delle ragazze.

Le differenze di genere incidono anche sulla partecipazione ad attività di tipo ricreativo o culturale: quasi la metà delle bambine e delle adolescenti (6-17 anni) non pratica sport in modo continuativo (48%), mentre tra i maschi solo il 37%; di contro, la percentuale dei maschi che non ha letto libri durante l’ultimo anno è del 59%, mentre per le coetaneeè del 46%. Si può parlare di una disuguaglianza legata ad un contesto culturale che continua a classificare le ragazze come “naturalmente predisposte” a discipline umanistiche e che considera i maschi “portati” per quelle

scientifiche.

Tuttavia, uno studio PISA del 2019 ha dimostrato che ragazze con un buon livello di autoefficacia e autostima raggiungono risultati analoghi a quelli dei coetanei maschi. Solo gli studenti e le studentesse che hanno maturato fiducia in se stessi accolgono positivamente la sfida di dover compiere diversi tentativi per riuscire in un compito. Questo fatto sovverte la falsa credenza che vi siano differenze biologiche e non, invece, sociali e culturali alla base dei divari di genere. Resiste e impera tuttora in un certo tipo di cultura secondo cui per natura le femmine non sono portate per le materie scientifiche. La conseguenza naturale dell’esposizione a questo genere di lettura della realtà è che fin da piccolissime le bambine iniziano ad interiorizzare connotazioni di sé e delle proprie capacità influenzate dal loro genere, ottenendo una minore fiducia nelle proprie capacità. Esemplare, in questo senso, è uno studio uscito su Science (Bian, Leslie&Cimpian, 2017) in cui bambini e bambine di 5 anni dovevano scegliere tra un insieme di foto i compagni o le compagne per fare un gioco di abilità. Ovviamente in entrambe i sessi erano preferiti compagni e compagne dello stesso sesso, perché i propri simili sono più attraenti. Ma la condizione sperimentale cruciale era quella in cui si avvertivano le/i partecipanti che il gioco era really, reallysmart” ossia richiedeva di essere veramente brillanti: in questa condizione sono emerse due tendenze impressionanti: anche le bambine scelgono compagni maschi e tendono a rinunciare a giocare a questo gioco. Dunque, a 5 anni gli stereotipi di genere hanno già fatto i danni per cui sono stati costruiti culturalmente: non percepiscono se stesse come meno adeguate, ma hanno anche meno fiducia nell’intelligenza delle compagne.

Nell’evoluzione e nella crescita del minore, stereotipi di genere possono produrre ripercussioni sulle scelte fondamentali che un/a adolescente deve affrontare, tra cui il percorso di studi. Il peso degli stereotipi offre un’interessante chiave di lettura sul perché tuttora vi sia una netta disparità di genere nella rappresentatività delle donne nei settori delle materie STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica). Nonostante le donne costituiscano la maggioranza dei laureati, la quota di laureate in ingegneria e scienze è ancora minoritaria. L’Indagine sul Profilo dei laureati STEM rivela infattiche pur essendo più elevata la componente maschile, che raggiunge il 59,1%, quella femminile è salita negli ultimi anni al 40,9%. Però, se si va a vedere quale percentuale tra tutte le studentesse sceglie corsi STEM il numero non è incoraggiante: in Italia il dato è pari acirca il 17%, in linea con la media europea (16%) e di altrenazioni come Svezia (16%) e Francia (15%).

In che senso affermiamo che lo svantaggio che mostrano le studentessenelle discipline STEM è il risultato di uno stereotipo e non di una predisposizione a preferire materie di studio che fanno leva su una ‘naturale’ preferenza per l’elemento umano (la cura delle persone, l’insegnamento, le lingue e la comunicazione, la psicologia). In effetti se chiediamo ad un campione di donne se si sentono più portate all’ingegneria o alla psicologia ci aspettiamouna netta preferenza per la seconda. In questo non c’è nulla di male se non fosse che questa preferenza potrebbe essere il risultato di modelli culturali basati su stereotipi di genere più che su una naturale inclinazione.

A mettere un punto fermo su questa questione è il volume di Gina Rippon (2019), professoressa emerita di neuro imaging cognitivo presso l’Aston Brain Centre di Birmingham (UK), che dimostra che l’idea che gli uomini e le donne abbiano cervelli diversi è un puro mito che non ha alcuna base scientifica. Ci sono stati studi condotti con metodi della risonanza magnetica che hanno dato ampio spazio all’indagine sulle differenze di genere e su questo ambito di ricerca

si è sviluppato un vero e proprio filone di ‘neurosessismo’, come lo chiama Rippon: la neurobiologia piegata all’ipotesi delle differenze tra i sessi. Ma analisi più approfondite hanno dimostrato che al di là delle differenze all’interno del mondo maschile come pure all’interno del mondo femminile, maschi e femmine hanno cervelli uguali. Se i loro cervelli sono uguali, essendo state disconfermati tutti i tentativi di attribuire una superiorità neuropsicologica agli uni o agli altri, bisogna concludere che sia i maschi che le femmine sono vittime del pregiudizio che attribuisce loro capacità diverse. Ogni individuo è unico e la variabilità individuale è la regola nel mondo umano. Ma, come sostiene Rippon, ‘un mondo che ha sviluppato la distinzione tra i generi ha anche prodotto l’idea che i cervelli portano differenze di genere’. In altre parole la cultura tuttora dominante ha prodotto due risultati coerenti e strettamente legati tra loro: ha indirizzato le bambine, le ragazze e le donne ad adottare comportamenti desiderabili e funzionali per una certa organizzazione sociale e del lavoro, e nel contempo, attraverso la creazione di stereotipi, ha costruito una ‘ teoria’ che sostiene che quei comportamenti sono biologicamente determinati e dunque ‘naturali’.

Se la teoria è che le bambine sono diverse dai bambini, vanno offerti loro giocattoli diversi, e questa diversità si perpetua da una generazione all’altra proprio grazie alla teoria, lo stereotipo, che conferma che la bambina gioca con le bambole perché è naturalmente portata a fare questo, come i bambini sono portati a giocare con le macchinine. Dunque gli stereotipi servono a modellare i comportamenti delle persone, che tenderanno ad adeguarvisi conformemente alle aspettative della società. Questo può tradursi nella frustrazione di desideri e inclinazioni e talenti perché la pressione sociale è forte, impellente; naturalmente anche la pressione sui maschi comprime la loro libertà: sono incoraggiati a sviluppare attitudini razionali e dunque sono ‘naturalmente’ ritenuti inclini al comportamento razionale. Anche se il modello che viene loro proposto è quello vincente in quanto in genere si associa a un maggiore potere decisionale, economico e psicologico, sono comunque destinatari, involontari e spesso inconsapevoli, di una pressione culturale che non rispetta le loro reali inclinazioni.

C’è ancora molta strada da fare per il superamento degli stereotipi di genere; le strategie sono diverse, dal trattare maschi e femmine con equità e rispetto delle loro differenze, al ricercare con loro la possibilità di esprimere i talenti più autentici, al rispettare le loro inclinazioni in qualunque ambito dell’agire umano, all’usare un linguaggio inclusivo in cui il maschile e il femminile siano equamente rappresentativi, al perseguire l’equità in ogni contesto e situazione che veda agenti di diverso genere, come ad esempio l’equità salariale, un diritto fondamentale che è difficile da raggiungere proprio in virtù della divisione di ruoli alla cui base troviamo gli stereotipi di genere. A volte sembra che lo sbilanciamento di potere tra i generi sia impossibile da superare ma il percorso è iniziato soprattutto grazie a un sempre più equo accesso alla scolarizzazione nei ragazzi e nelle ragazze.

M. Chiara Levorato, Prof.ssa Ordinaria di Psicologia dello Sviluppo
Studiosa senior dell'Università di Padova
Past president CLASTA
www.clasta.org
Referente per la Consensus Conference
Sul Disturbo Primario del Linguaggio

 


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