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Lo stupro etnico in Bosnia Erzegovina e le violenze domestiche. Una Rete di aiuto

Lo stupro etnico in Bosnia Erzegovina e le violenze domestiche. Una Rete di aiuto

Una Rete interistituzionale contro la violenza di genere: accade a Roma in periferia e funziona bene. "Lo stupro etnico delle donne in Bosnia Erzegovina. Per non dimenticare..."

Domenica, 21/07/2019 - La forza della rete nel contrastare la violenza di genere è stato il focus dell’incontro organizzato il 16 luglio a Roma all’insegna della collaborazione tra l’associazione ‘Bosnia nel cuore’, il Municipio V e il Csv Lazio (Centro di servizio per il volontariato) presso il Nuovo Cinema Aquila. È impossibile stilare una graduatoria dell’orrore paragonando le violenze che subiscono le donne in famiglia con gli stupri etnici usati come arma di guerra, ma un contributo utile può arrivare lungo l’asse dell’accoglienza a tutte le donne vittime di violenze sessuali e della comunicazione per non dimenticare, come nel caso delle guerre dei Balcani. Il racconto delle brutalità è stato affidato al film di Jasmila Žbanić “Il segreto di Esma” (vincitore dell'Orso D'oro al Festival di Berlino nel 2006) e alle pagine del libro “Violentate. Lo stupro etnico in Bosnia Erzegovina” di Ehlimana Pasic lette da Nela Lucic, attrice e segretaria della Comunità di Bosnia ed Erzegovina a Roma ‘Bosnia nel cuore’. L'iniziativa ha preso il titolo dal film, "Lo stupro etnico delle donne in Bosnia Erzegovina. Per non dimenticare...".
“Noi non siamo in grado di cambiare la storia delle persone o delle comunità ma possiamo certamente essere accanto a loro e sostenerle in un percorso di rielaborazione che dovranno fare per tutta la vita”. Gianna Rita Zagaria, responsabile Ufficio di Piano del Municipio V, ha presentato la Rete interistituzionale per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere del Municipio illustrando il senso e gli obiettivi della Rete. “Ci sono tragedie talmente grandi e dolorose che non si riescono neppure a nominare. Questo non riuscire a dare un nome al male noi assistenti sociali lo incontriamo spesso in storie e tragedie private o collettive, ma se non se ne parla neppure le si affronta. Tutti giorni incontriamo donne, bambini, famiglie chiuse in una strettoia fatta di dolore che non possono esternare né condividere. Invece la condivisione è utile, se non per tutelare almeno per elaborare un evento tragico. Il lavoro del servizio sociale è basato sulla relazione d'aiuto e quando non basta si deve passare a un gruppo di lavoro, allora serve una squadra: è la Rete che abbiamo costruito nel territorio e per contrastare la violenza di genere. Il crimine efferato contro l’umanità perpetrato in Bosnia Erzegovina - ha sottolineato Zagaria - è stato anche un crimine contro ogni donna, noi possiamo intervenire su ogni donna, sapendo che il nodo della questione rimane il lavoro a livello culturale”.
Eloquente in questo senso l’intervento di Massimo Melito, della Polizia di Stato, in servizio presso il Commissariato di Torpignattara. "Sono inserito in questa Rete da circa un anno e stiamo ottenendo molti risultati grazie all’impegno di tutti; la nostra è una Rete fatta di persone e non di numeri o loghi. Siamo in contatto diretto, ci conosciamo tutti e sappiamo di poter contare sui colleghi per intervenire rapidamente dove c’è bisogno. Abbiamo anche visto che, nonostante l’impegno e l’allontanamento dell'uomo violento, talvolta i problemi non si riescono a superare: in un caso lui è uscito dalla galera e ha ucciso la donna che riteneva dovesse essere ‘sua’. Serve quindi che anche durante la detenzione questi uomini maltrattanti siano assistiti in modo più efficace se vogliamo che il carcere sia davvero educativo e la pena sia finalizzata al reinserimento. È importante anche sottolineare che ogni situazione è diversa, che non si può standardizzare l’intervento perché sulla violenza di genere ogni caso va trattato nel modo giusto”.
Un altro aspetto dell’efficacia del lavoro in Rete lo ha sottolineato Ambra De Innocentis, assistente sociale nel presidio ospedaliero Madre Giuseppina Vannini. “È un progetto interessante e ne ero entusiasta anche prima, come donna e cittadina. Bisogna capire che, spesso, solo nel momento in cui arrivano all'ospedale le donne riescono a sentirsi, a dichiararsi, vittime di situazioni drammatiche ed estreme. È importante la Rete perché in ospedale, registrando in maniera diversa il maltrattante nel momento dell'accesso, si formalizza la violenza. Lo abbiamo potuto fare grazie alla Rete che funziona anche al di fuori degli orari di lavoro, trovando la disponibilità dell'Ispettore di sabato o di domenica”. Una realtà complessa quella delle violenze di genere, che non si può affrontare con superficialità. Ed eccolo il filo rosso che lega le differenti circostanze delle violenze, dagli stupri etnici al compagno possessivo della periferia romana: raccontare la violenza liberandosi dalla vergogna. L’intervento di Fatima Neimarlija, presidente della Comunità di Bosnia ed Erzegovina a Roma ‘Bosnia nel cuore’ ha aiutato a comprendere. “Nonostante i pronunciamenti del Tribunale dell’Aja le donne sono viste ancora oggi come testimoni e non come vittime e hanno grandi difficoltà ad ottenere i loro diritti. Sono state violentate dai militari serbo-bosniaci ma anche dall'esercito che veniva dalla Serbia a combattere. Esistevano due tipologie di donne: quelle che dopo la violenza venivano uccise e quelle che dovevano far nascere figli dello stupro: era uno degli obiettivi del genocidio, un modo di sterminare un popolo. Quelle donne dovevano parlare e terrorizzare tutta la società perché poteva toccare a chiunque in qualsiasi momento. La cosa peggiore è che ancora oggi queste donne vedono i loro violentatori per strada perché dei 160 criminali di guerra processati dal Tribunale dell'Aja solo metà sono in prigione. Le donne violentate fino al 2017 sono da 20 a 50mila e solo 870 donne ricevono un piccolo rimborso. Questo accade perché non vogliono parlare: vogliono rimuovere o hanno paura, alcune hanno lasciato il paese. È molto difficile farle parlare e il film è una storia vera. La protagonista insieme ad altri figli della guerra 2 anni fa hanno fondato un'associazione a Sarajevo 'I figli di guerra dimenticati'. Iniziative come questa di oggi sono importanti perché possiamo far sapere cosa è accaduto”.
E noi ringraziamo, perché è bene non dimenticare e conoscere le ragioni del dolore che è ancora tra noi. Vivissimo.

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