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Quello che resta

Quello che resta

Una giornata con i genitori di Giulia Galiotto, uccisa da suo marito nel 2009

Lunedi, 20/07/2020 - Chi era Giulia? Quali erano i suoi desideri, i suoi sogni? Cosa pensava della vita, dell’amore, dell’amicizia, del matrimonio? Come viveva, dove viveva, con chi condivideva la sua esistenza? Questi e molti altri erano gli interrogativi che mi sono posta nel momento in cui ho deciso di raccontare la vita e la morte di Giulia Galiotto. Una ragazza come tante, sorridente, affettuosa, speranzosa nei confronti della vita, cresciuta nella campagna modenese avvolta nel calore affettuoso della sua famiglia. E a soli trent'anni morta per mano di suo marito, che per liberarsi di lei non ha scelto la via più ovvia - la separazione -, bensì ha deciso di inscenarne il suicidio, uccidendola a sassate e poi buttandone il cadavere nel fiume.
Solo un’imprevedibile coincidenza ha impedito che il suo delitto premeditato diventasse un delitto perfetto e così, messo di fronte all'evidenza, ha confessato una sua versione dei fatti che escludeva la premeditazione invocando il tanto apprezzato dalle cronache raptus. Gli hanno creduto, la giustizia italiana gli ha creduto e lo ha condannato a 19 anni e 4 mesi di reclusione.
Giovanna Ferrari, la madre di Giulia, mossa dal dolore e dalla rabbia, ha deciso di raccontare la storia di Giulia e del processo al suo assassino nel libro “Per non dargliela vinta” (Ed. Il ciliegio, 2012), e da allora non ha mai smesso di raccontare la sua testimonianza nella speranza e nella convinzione che solo una nuova educazione all'affettività potrà salvarci da questo massacro che ha preso il nome di femminicidio.
Per cercare di interpretare la vera voce di Giulia nel mio racconto decido quindi di andare a trovare Giovanna, di ascoltare da lei la sua versione dei fatti e soprattutto l’immagine che conserva di Giulia. Lei e suo marito mi accolgono nella loro casa in collina come se fossi un’amica, come se già ci conoscessimo da anni, anche se finora ci siamo parlate solo per telefono. E subito Giovanna mi inizia a raccontare di Giulia. Avevo letto il suo libro, le sentenze e altri documenti che mi aveva inviato, mi ero fatta una scaletta di argomenti che mi proponevo di affrontare, ma neanche la guardo. La nostra conversazione scorre istintivamente seguendo solo in parte un criterio cronologico.
E così conosco Giulia. Mi pare quasi di vederla camminare in giardino nella sua amata casa di campagna. Mi pare quasi di sentire la sua voce aleggiare nelle stanze. Mi pare quasi di averla accanto a noi mentre Giovanna mi mostra qualche pagina di un suo diario. E mi sembra proprio che appaia tra noi due quando Giovanna va a prendere Gibba, la sua adorata mucca di peluche che proprio la mamma le aveva regalato all'inizio dell’università e che era diventata la sua compagna, sempre presente in ogni momento di difficoltà. Giovanna la accarezza, la guarda, la stringe tra le mani, e ho la sensazione che le sue mani cerchino Giulia.
Giulia era affettuosa, sempre disponibile verso gli altri, Giovanna mi racconta che fin da piccola passava ore al telefono con i suoi compagni di scuola per ascoltare i loro problemi, sentiva le emozioni delle altre persone quasi come fossero le proprie, con un’empatia davvero rara. Forse per questo aveva deciso di studiare psicologia. Aveva da sempre una profonda complicità con sua sorella Elena, che ha accompagnato le sue confidenze fino all'ultimo giorno, anzi fino agli ultimi minuti di vita, diventando proprio colei che ha smascherato la messinscena dell’assassino. Giulia sognava di costruirsi una famiglia, una famiglia serena come quella in cui era cresciuta. Desiderava fortemente avere dei figli, la maternità era per lei un’esigenza irrinunciabile.
Tutti questi sogni sono stati spazzati via dalla violenza, una violenza che era cresciuta invisibile e che oltre ad uccidere Giulia ha condannato ad un dolore perpetuo i suoi cari. “Questa è la mia prigione” mi dice Giuliano, il padre di Giulia, con cui dopo un po’ si allarga la nostra conversazione. E mi racconta anche che un giorno, in occasione di un femminicidio che c’era stato in una località vicina, il marito di Giulia commentò: “Oggi conviene uccidere la moglie piuttosto che separarsi”. Giuliano la prese come una battuta, tutti la presero come una battuta, quelle battute da bar che quotidianamente ascoltiamo bevendo il caffè, a cui non diamo peso, perché che peso vuoi che abbiano, sono modi di dire. A ripensarci adesso sembra incredibile, mette i brividi.
E allora Giuliano mi chiede perché la gente non ne parla? Ne dovrebbero parlare tutti, sempre, continuamente, mi dice. Specie nella comunità che conosceva Giulia e che conosceva il suo assassino, dovrebbero riflettere su quanto essere donna sia difficile, su quanto sia scorretto presumere che siano sempre le donne ad avere qualche colpa. “Giovanna ha ragione, ma…” dicono invece a Giuliano. Ma? Ma cosa? Perché dovrebbe essere colpa nostra se veniamo uccise? Da che mondo è mondo la colpa delle azioni è di chi le agisce, non di chi le subisce. E allora perché quando si parla di violenza maschile contro le donne in qualche modo sono sempre le donne che finiscono per essere colpevolizzate? Cosa, chi ha consentito una così assurda distorsione della realtà?
Dovrebbero parlarne soprattutto gli uomini, mi dice Giuliano – con mio stupore, devo ammetterlo –, condividendo quello che è anche il mio pensiero: questo è un problema degli uomini! Sono gli uomini che ci uccidono, sono gli uomini che ci maltrattano, dalle piccole cose quotidiane, dal dare per scontato quello che la società ci ha detto essere il nostro ruolo di donne. E quindi è un loro problema, degli uomini, non nostro!
Un terribile interrogativo occupa ad un certo punto la nostra conversazione: e quando lui uscirà? Perché lui tra un po’ uscirà dal carcere, avrà pagato il suo debito con la giustizia, e tornerà a casa, nella sua casa, a pochi chilometri dalle sue vittime. Lo Stato – quello Stato che dovrebbe prevenire e punire la violenza, nonché proteggere le vittime – non avviserà neanche questi genitori quando l’assassino della loro figlia tornerà libero. E loro che faranno? Lo incontreranno per strada, al supermercato, in un negozio? Sentiranno parlare di lui dai vicini? Giulia sarà ancora morta e lui sarà libero. Loro invece devono scontare una condanna con fine pena mai.
Dovevo rimanere a casa di Giovanna e Giuliano circa tre ore, ma la giornata è passata interamente senza che me ne accorgessi. Tra ricordi, sorrisi, lacrime, domande, riflessioni, speranze, incredulità e delusioni. Giulia è stata con noi, di questo sono sicura. E spero che il mio racconto di lei renderà giustizia alla sua personalità, quella giustizia che lo Stato le ha negato e che forse non appartiene agli esseri umani.
Nel salutare Giovanna e Giuliano sento il desiderio di abbracciarli, di stringerli forte così come faceva sempre Giulia, ma le precauzioni sanitarie ce lo impediscono. Vuol dire che li abbraccerò un’altra volta, vuol dire che ci rivedremo ancora, che parleremo ancora, perché non possiamo smettere di raccontare e di denunciare. Come dice Giuliano, tutti dovrebbero parlarne, sempre.
Ciao Giulia.

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