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PREMIO LETTERARIO NAZIONALE CLARA SERENI / CRISTINA PACINOTTI

PREMIO LETTERARIO NAZIONALE CLARA SERENI / CRISTINA PACINOTTI

'La vecchia rapita': seconda classificata nella sezione romanzo inedito

Mercoledi, 06/01/2021 - Dopo la laurea con il massimo dei voti e lode con Umberto Eco al DAMS di Bologna, ho vissuto a Parigi, Berlino e Amsterdam. A Pisa, mia città natale, ho creato e diretto il centro discipline olistiche Nagual. Trasferita in campagna ho promosso la creazione di ecovillaggi. Vivo in un casale nei boschi della Lunigiana. Tra le mie pubblicazioni Un corpo per il mio guardaroba (La Salamandra), Chiamarsi Fuori (Stampa Alternativa), Anime in Bestia (Pixart), In quei giorni c’era molta luce con nota introduttiva di Dacia Maraini. Luogo Comune (Vivere Altrimenti), Un Altro Posto (ETS) con nota introduttiva di Fabio Genovesi, romanzo largamente recensito e presentato anche al Pisa Book Festival 2017.
Con Lo Strappo, nel 2018, sono risultata finalista al premio Bukowski (Viareggio) e al Premio La Donna si Racconta (Pesaro). Con Non Ancora ho vinto il primo Premio Inedito Colline di Torino. Con La Vecchia Rapita sono in finale al premio Dostoevskji e ho conseguito un premio, come II classificato, al Premio Letterario Nazionale Clara Sereni.


INSEGNAMI A ESSERE FELICE
estratto

Da tre ore alla guida per arrivare a Villa Sorriso. Non vedo mia madre dal giorno del suo compleanno quando ci siamo ritrovati a Pisa, da Riccardo. Intorno al tavolo sua moglie e le loro due figlie, ragazzine con dita e occhi attaccati ai cellulari come zecche alla pelle di un cane. Mia moglie aveva pensato bene di risparmiarsi il viaggio, impegnata com’era in uno dei suoi seminari per imparare a essere felice. Non mi risulta che ci sia riuscita.
Piove e il grigio dell’asfalto duplica i fari di camion e auto in corsa.
Il contrasto tra il traffico intenso e gli squarci desolati di questa campagna piatta e deserta è mitigato dall’apparire intermittente di capannoni e cantieri che costeggiano l’autostrada. Una gru gigantesca, nera nel cielo plumbeo, sembra un mostro messo a guardia di un pianeta diventato cenere. I miei pensieri sono palline impazzite in un flipperche minacciano di farmi distrarre dalla guida. Sono stanco, la pioggia mi appanna la vista. Decido di fermarmi nel primo autogrill. Parcheggio tra due TIR. In fondo allo spiazzo antracite, ciuffi di erba e piante infestanti hanno invaso l’asfalto come se la natura volesse rioccupare il posto che fu il suo.
“Ti devo parlare”.
Con queste parole mio fratello aveva condito l’invito al pranzo per il compleanno di mamma.
“E non puoi dirmi per telefono?”
“No, è una decisione importante, dobbiamo parlarne a voce, vedi di venire”.
Ogni tanto succede che Riccardo se ne esca con questo tipo di sollecitazioni. I suoi “ti devo parlare” mi inchiodano al ruolo di fratello irresponsabile, anche se maggiore di sei anni.
La mia scusa abituale è che abitando lontano mi è difficile far visita alla famiglia.
La verità è che sono sempre sentito esonerato a occuparmi di qualcuno diverso da me stesso.

Ci eravamo appena seduti a tavola quando era stato servito il piatto forte. No, non le lasagne troppo farcite di ragù e besciamella e neanche gli arrosti contornati da patate unte e bruciacchiate. Il piatto forte era il trasferimento di mamma a Villa Sorriso.
“È una residenza per anziani di ottimo livello, devi vedere che belle camere luminose e il parco poi, una meraviglia!” Il timbro squillante della voce di mia cognata anche quel giorno mi aveva trapanato il cervello.
“Mamma si è decisa a firmare per la vendita, dopo la frattura al femore non ce la faceva più a fare i due piani di scale”, aveva rincarato la dose Riccardo, “mettere un montascale eraimpossibile, in questi palazzi del centro storico vincolati dalle belle arti. Una badante, dici? Le badanti costano un occhio e sono tutte ladre matricolate”.
“Farla stare qui, con noi, ci abbiamo provato, ma…”, aveva iniziato mia cognata.
“Ma gli spazi sono quelli che sono, le bambine hanno bisogno di una camera ciascuna, abbiamo abitudini diverse e la convivenza non è possibile”, aveva detto mamma scimmiottando la voce di sua nuora. Poi aveva aggiunto, in tono mutato: “Abbiamo già chiarito. Sono io la prima a dire che qui non ci posso stare, con tutto il bene che vi voglio e voglio alle nipoti. Tuo fratello mi ha trovato un appartamentino al piano terra in centro, appena sarà pronto, andrò ad abitarci, discorso chiuso”.
Mamma aveva alzato gli occhi dal piatto e aveva fissato Riccardo.
“Quando pensi che sarà pronto?”
“Spero presto. È stato un super affare ma va fatto l’impianto di riscaldamento e anche il bagno è da rifare. Intanto che verranno completati i lavori la soluzione migliore è quella che ti abbiamo già prospettato”.
Mio fratello aveva usato quel suo tono definitivo, edulcorato dal solito brio con cui di solito si prende tutta la scena. Poi aveva proposto un brindisi per festeggiare gli ottantaquattro anni di mamma ma a me il prosecco non piace e avevo soltanto bagnato le labbra nel bicchiere.
Al dolce era ancora lì che vomitava parole sull’ occasione che era stata, di questi tempi, l’aver trovato un acquirente per la casa di mamma (la “nostra casa”, come la chiama lui) e di che fortuna fosse stato acquistare quel mini in centro nonché essersi accaparrato un posto a Villa Sorriso, una rinomata casa di riposo dove c’è una lunga lista di attesa.

Sto guidando in compagnia della radio e dei miei pensieri. Il numero dei contagiati sta aumentando, si sta prospettando la chiusura delle scuole e così quella di bar e locali. Questo nuovo virus che sta mietendo tante vite in Cina, ormai è conclamato, si sta diffondendo anche da noi. Ecco, non bastavano le guerre, i cambiamenti climatici, lo scioglimento dei ghiacciai, le polveri sottili,i profughi in mare.
Con questa pioggia non mi azzardo a superare la fila interminabile di camion che ostruisce l’autostrada. Tanto ne superi uno, ne superi due, tre, rientri dalla corsia di sorpasso e tempo due minuti te ne ritrovi un altro blocco davanti. Resto dietro a questo TIR che trasporta bestiame. Suini: c’è scritto in grande sullo sportellone. Faccio andare la mia musica nello stereo. Note e armonia riempiono l’abitacolo della macchina. Mi decido e supero il camion. Un violento scroscio di pioggia mi fa rallentare, il camion mi raggiunge, suona il clacson, sfanala. Grido nel vetro appannato, maledico il camionista. Inutile rabbia, insensata reazione. Alzo la musica.

Eccomi finalmente arrivato. Citofono. Cancello. Vialetto di ghiaia. Scalini. Ci metto più tempo di quello necessario per giungere davanti alla porta a vetri di Villa Sorriso. Controllo il cellulare, fumo una sigaretta poi mi decido e spingo la barra di metallo.
Non posso fare a meno di notare i segni delle ditate sul vetro. La parete dell’atrio, opposta all’entrata, è dipinta di azzurro. Una fascia azzurra scura più in basso, una più chiara in alto. Sotto questa astrazione di cielo e di mare una balza beige rappresenta una spiaggia.
Non ha ancora smesso di piovere, è l’ultimo giorno di febbraio, non è tempo da mare.
Lungo il soffitto in cartongesso una teoria di faretti al neon illumina a giorno l’atrio, amplificando la luce che penetra dalle vetrate.
Entro nel salone. Mi sorprende il silenzio, un silenzio animato da un sottofondo di respiri affannati, colpi di tosse, brontolii sommessi. Nessuno parla.
Nell’enorme stanza circondata da finestroni e costellata di tavoli, sedie e poltrone, disseminata di vecchi, alcuni sulle sedie a rotelle, incombe il chiacchiericcio della televisione che trasmette un servizio su questa influenza pericolosa che sta iniziando a mietere vittime anche da noi.
Perlustro con lo sguardo la sala. La individuo subito. Seduta in poltrona, le spalle alla tivù, lo sguardo rivolto alla pioggia che cola sui vetri.
“Claudio!” esclama come si volta con un sussulto e mi inquadra “sei già arrivato! Ma che bello! Sei venuto per portarmi via da questo brutto posto, grazie caro”.
Non rispondo, sto ancora guardandomi intorno spaesato. Mi sento circondato da morti viventi.So che non riuscirò a resistere un minuto di più.
“Vado a prendere le sigarette in macchina”, dico prima di precipitarmi fuori dalla sala. In realtà le sigarette le ho in tasca e ne accendo subito una appena esco e trovo un riparo sotto la tettoia.
Il tempo sta cambiando. Un vento leggero sta allontanando le nuvole e la pioggia.Controllo il cellulare. C’è un messaggio di mia moglie che vuol sapere perché sia partito così all’improvviso. Non so cosa risponderle. Non posso dirle che vorrei cambiare la mia vita, che non so come fare e che, d’un tratto, mi è venuta voglia di chiedere aiuto a mia madre.

Come rientro nella sala noto che mamma mi sta venendo incontro attaccata al deambulatore. Il suo “aggeggio”, come lo chiama lei.
Scendiamo al piano terra, raggiungiamo il parco. Per distrarla le indico i fiori, gli alberi, gli uccellini, la chiara luce di questa fine d’inverno.
“Sì, lavista della natura è la migliore cura per la malinconia, il mare non ti imprigiona, il mare è libertà”, mi dice con un sorriso dei suoi.
Ci sediamo su una panchina che il vento ha già asciugato.
“Hai sentito di questo virus? Io non ho paura di morire, ma voglio morire bene. Pare che la morte per la polmonite causata da questo virus, come si chiama?Co…”
“Covid-19”
“Ecco, sì, Covid-19, pare che sia una morte bruttissima. Ascolta, voglio andarmene da questo posto prima di uscirne con i piedi davanti. Claudio, ho bisogno d’aria ed è da tanto tempo che non vedo il mare, portami a vedere il mare”.
“Ma è inverno”.
“Adoro il mare d’inverno”, dice prima di mettersi a canticchiare quella vecchia canzone della Bertè: Mare mare qui non viene mai nessuno a trascinarmi via, mare qui non viene mai nessuno a farci compagnia…”
“Andiamo al mare e poi a vedere l’appartamento, voglio capire cosa sta succedendo” dice ancora.
Io la prendo larga, edulcoro la pillola e le riferisco per sommi cosa mi ha detto Riccardo. I lavori nel nuovo appartamento non sono ancora finiti, anzi, per la verità, a causa di una difformità catastale, non sono ancora iniziati.
“Ah, per cui tuo fratello ha preso una fregatura! E meno male che era un affare che non dovevamo farcelo scappare. Amen, troverò un’altra soluzione”.
“E quale?”
“Ma, piuttosto che restare qui mi compro una yurta come quelle che usano in Mongolia, che cazzo!”.
“Mamma, ma da quando dici cazzo?”
“Da quando so cosa sono le yurte. Ci si può vivere bene in una yurta, sai? E anche in un tepee”.

Comerientriamo a Villa Sorriso mia madre mi fa notare che una delle R dell’insegna è scollata, sta per cadere.
“Come si fa a sorridere in questo posto? Non ci crede neanche l’insegna”, dice con quel suo tono arioso, leggero. Ecco, la leggerezza è una sua qualità che non ho davvero ereditato. Sì, mia madre è passata nella vita volando sulle ali del sorriso. La sua predisposizione alla letizia si è unita a un carattere libero, autentico, senza peli sulla lingua.
E io, invece?
Se ho rimandato per tutti questi anni un vero incontro con mia madre, che non fosse la solita visita per le feste comandate, è stato per nascondere gli strati pesanti, compressi della mia personalità che mi hanno sempre impedito di sentirmi in accordo con me stesso.

Come entriamo nell’atrio mi indica i cartelli con scritto direzione, mensa, biblioteca, sala attività.
“L’obitorio non è citato” dice “eppure ne muoiono ogni giorno, cadono come mosche all’arrivo del freddo. Dai, andiamocene. Non ce la faccio più a stare qui dentro, con questi vecchi ancora vivi che sono più morti dei morti veri. Sai come si dice: non serve aggiungere giorni alla vita ma vita ai giorni...”


“Che bel ventodi libeccio! Mi ricordo quando il mare non era un brodo di acqua morta com’è ora”, dice non appena arriviamo sul lungomare a Tirrenia. Non c’è nessuno a prendere il sole sugli scogli, anche la spiaggetta di ciottoli bianchi è deserta.
“Mamma, c’è troppo vento, torniamo in macchina”.
“Mi piace il vento”, rispondementreavanza attaccata al suo “aggeggio”per raggiungere la scogliera.
Per un lungo momento rimane in contemplazione, il naso in aria.
“Sentiil marecome profuma”, mi dice.
Mi avvicino, respiro.
“Di più” mi dice“respira ammodino. L’odore del mare, quando c’è vento,è un assaggio di paradiso”.
“Ti sapevo atea…”
“Già: l’unico paradiso che mi interessa è quello che possiamo vivere qui, su questa terra”.

Il sole tramonta in un’esplosione di rosa.
“Vedi, è un omaggio per me”, dice.
Improvvisamente ricordo, quand’ero un ragazzino. Per il compleanno di mamma rendevo omaggio al suo nome portandole una rosa. La compravo dal fioraio vicino a casa o, se non avevo soldi, la rubavo in un giardino. Non è mai successo che Rosa non avesse la sua rosa.

Se chiudo gli occhi mi rivedo piccolo, correre su questa stessa spiaggia, il succo rosso e appiccicosodi una fetta di anguria,che allora chiamavo cocomero,mi colava sul mento.Il vento di scirocco asciugava la pelle come una garza.
Mi rivedo correre dietro una palla e dietro ai miei sogni.

Più tardi ceniamo in una locanda sul mare. Le onde battono proprio sotto la terrazza, si infrangono, si rincorrono sonore e veloci. Una cena di pesce accompagnata da una bottiglia di ottimo vino. Ho prenotato una camera e, finito di cenare, ce ne andiamo un po’ brilli a dormire ridendo come un tempo, quando mia madre era un vulcano di idee, battute, giochi e avventure ed era così divertente stare con lei. A volte per passare del tempo insieme trascuravo gli amici. Che ne è stato di quel tempo?
Una donna libera mamma, senza marito.Viaggiava sola, scriveva poesie, è stata tra le prime a frequentare un corso di danza delventre.Non nascondeva di aver avuto tanti uomini. Sono stato concepito nel ’68, non ho mai saputo chi fosse mio padre.

Dopo averla accompagnata in camera scendo a fumare. Vorrei telefonare a mia moglie per dirle che non possiamo più continuare con questo nostro rapporto scialbo, senza amore e senza passione. Ma il coraggio non è mai stato il mio forte. Ripongo il cellulare in tasca. Cammino sul lungomare. Il vento è aumentato di intensità. La luce della luna illumina le onde che si rifrangonoviolente sulla spettrale spiaggetta di ghiaia.

Quando rientro in cameramia madre dorme tranquilla. Anch’io questa notte ho dimenticato la mia solita insonnia. E stamattina misono svegliato riposato e moderatamente sereno.
Davanti a due tazze di caffè all’americana e a due brioches appena sfornate sembriamo proprio quello che siamo: una madre anziana e un figlio, che anziano non è ancora, ma sulla via di diventarlo, in un albergo sul mare per una vacanza insieme,fuori stagione.

Mi volto a guardare la televisione che incombe nella sala dove siamo gli unici ospiti. Nel servizio del telegiornale del mattino passano le immagini terribili del naufragio di un barcone carico di profughi. Il mare in tempesta ha inghiottitogran parte di quelle persone.
“Ci stiamo assuefacendo a questi orrori”, dicemia madre scuotendo la testa“quando quelli come me non ci saranno più i vostri figli vi chiederanno contezza di queste tragedie…”
“Io non ho figli, mamma”.

Le immagini notturne del mare increspato dal vento che passano in televisione vengono rimpiazzate da un servizio su questa terribile epidemia. Al servizio segue un dibattito in cui un esperto virologo sostiene che non è il caso di creare allarmismo tra la popolazione, che in fin dei conti si tratta di un virus influenzale, e che rischiano di morire soltanto le persone deboli, già malate o molto anziane, un altro si dice invece convinto che la situazione sia oltremodo grave e che l’epidemia si stia pericolosamente diffondendo anche tra le persone ancora giovani e sane.
Mamma si allunga verso il telecomando, lo afferra e spegne la televisione.

Riquadrata dalle vetrate dell’albergo l’estensione azzurra del mare promette ombrelloni e vacanze.
“Andiamo?” mi chiede mamma indicando con un gesto la spiaggia.
Il tempo volge di nuovo al bello, il vento si è calmato.Sui sassi della spiaggettasi incaglianole ruote del deambulatore.
“Tutto si ridimensiona davanti a questa vastità, anche la nostra vita”, dice mia madre, sedendosi su una sedia in plastica, rimasta sulla spiaggia dalla scorsa stagione, lo sguardo assorbito nelle lontananze dell’orizzonte.
Laosservo mentre si toglie le scarpe e arrotola i pantaloni della tuta.
“Aiutami a raggiungere il mare, voglio bagnarmi i piedi” dice, anzi, gorgheggia mentre avanza un passettino dopo l’altro attaccata al mio braccio.
“Mamma, l’acqua è fredda!” protesto io.
“Ma che fredda! Il mare è una meraviglia!”
Ride, lascia che un’onda le bagni i pantaloni. La crocchia in cui tiene legati i capelli si scioglie. I suoi capelli lunghi, bianchi volano nel vento. Mi fanno pensare ad ali di gabbiano che volteggiano nel cielo.
“Non c’è niente di più bello della libertà!” esclama aprendo le braccia.

Dopo poco ci sediamo vicini, sulla spiaggia.
“Ti ricordi quando tornavamo dal mare e ti facevo la doccia e avevi tutti i sassolini nel costume?”
No, non mi ricordo, e le sue parole m’imbarazzano un poco. Io sono timido, perbene, introverso;mia madre tutto l’opposto: sfrontata, anticonformista, è sempre stata lei la vera ribelle di famiglia.

Con le mani raccoglie un mucchio di sassoliniche fa scivolare tra le dita in modo da formare un’oscura cascata di pietrisco.
“E’ così la vita, un attimo e resti a mani vuote”, dice piano, con una voce che sa di lontananza.Dopo un attimo il suo tono ritorna allegro: “Per questo bisogna godersela la vita, fino all’ultimo sassolino”.

Mi accendo una sigaretta, addirittura mi viene da offrirgliene una.
“Non fumo da una vita”, mi dice, “preferisco respirare. Prova anche te”.

Ascolto il suo consiglio e respiro. E dopo aver respirato e respirato quest’aria frizzantina mi viene voglia di raccontarle di me. Dei miei sogni naufragati, dell’inutile appiglio che è stato il mio matrimonio. Le racconto di come sia stanco e infelice. Mentre i gabbiani compiono i loro cerchi nel cielo terso le confesso che mi manca l’amore, mi manca la felicità che solo l’amore può dare. Le dico che è per questo motivo se, in tutti questi anni, hopreferito non confrontarmi con lei. Per evitare di guardare la realtà in faccia. E di come improvvisamente mi sia venuta voglia di partire per venire a trovarla, per stare un poco insieme, per chiedere il suo aiuto.

Dopo un breve silenzio mi guarda negli occhi, mi dice:
“Senti Claudio, facciamo un patto. Tu mi racconti tutto, ma proprio tutto, e io mi metterò d’impegno per trasmetterti quello che ho imparato vivendo. A iniziare da questa semplice verità: essere felici èl’impegno più importante che abbiamo con noi stessi in questa esistenza. Io sono stata felice in tanti modi, in tanti momenti. Se tu mi prometti che non mi riporterai là dentro, in quel posto triste, io, in cambio, ti insegnerò quello che so sull’amore e sulla felicità. Accetti il patto?”
Non ho bisogno di pensarci. Le dico subito di sì. La voce del mare sembra approvare la mia decisione.
Un soffio gentile di vento mi suggerisce di accettare la scommessa. No, non la riporterò a Villa Sorriso. Ci inventeremo qualcosa, troveremo un posticino dove stare insieme, almeno per un po’, ce ne andremo in giro, via, in fuga, lontani da tutto.



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