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Perché è sbagliato parlare di Revenge Porn

Perché è sbagliato parlare di Revenge Porn

Revenge vuol dire vendetta e richiama l’idea di un rimedio ad un torto subito, invece si tratta di pornografia non consensuale. Ecco spiegate le ragioni

Domenica, 14/04/2019 - Tiziana, Emma, Paris, Giulia. Sono quattro donne profondamente diverse tra loro, ma con una cosa in comune: essere state vittima di atti di pornografia non consensuale.
Tiziana Cantone -probabilmente il caso italiano più eclatante - si è tolta la vita il 13 settembre 2016, dopo che i suoi video privati erano stati diffusi dall’ex fidanzato e che la rabbia e la violenza mediatica di migliaia di persone si erano abbattuti su di lei, umiliandola e screditandola.
Emma Holten è una ragazza danese di 28 anni. Quando aveva 20 anni le sono state rubate dal cellulare delle fotografie private che la ritraevano nuda e sono state condivise sul web. Dopo aver subito ogni tipo di molestia ed umiliazione a seguito della pubblicazione, Emma ha deciso di reagire positivamente e passare al contrattacco. Ha contattato la fotografa danese Cecilie Bødker per realizzare un servizio di foto che valorizzassero la sensualità e la bellezza del suo corpo nudo. Il titolo del servizio era “Consenso”.
Paris Hilton, la famosissima ereditiera americana è stata vittima di un atto di pornografia non consensuale quando, nel 2003, il suo ex fidanzato Rick Salomon condivise in rete un video dal titolo One night in Paris che li riprendeva mentre avevano rapporti sessuali.
Recentemente sono state diffuse fotografie private di Giulia Sarti, deputata del M5S e Presidente della Commissione di Giustizia dal giugno 2018. L’episodio ha messo subito in discussione la sua professionalità, come se aver fatto delle foto in déshabillé fosse un’automatica prova di incompetenza a svolgere bene il proprio lavoro.

Questi sono quattro casi di revenge porn, o più correttamente pornografia non consensuale.
E’ sbagliato parlare di revenge (tradotto vendetta). Vendetta significa: “Danno materiale o morale, di varia gravità (…), che viene inflitto privatamente ad altri in soddisfazione di offesa ricevuta o di danno patito” (Treccani). Secondo questa definizione, per poter parlare di revenge porn, la persona che diffonde il video o le foto agisce per soddisfare “un’offesa ricevuta o un danno patito”. Ma in caso di revenge porn, quale dovrebbe essere l’offesa ricevuta o il danno patito dagli uomini che diffondono questo materiale pornografico senza il consenso della vittima?
Nella maggior parte dei casi questa offesa consiste nella rottura della relazione da parte della donna, nell’aver fatto qualcosa che minaccia il potere dell’uomo o mette in discussione le dinamiche tradizionali tra uomo e donna.
Chiamarlo revenge porn è sbagliato perché continua ad alimentare l’idea che l’umiliazione e la mortificazione della vittima siano la punizione per una donna che ha osato sottrarsi a schemi comportamentali ancora profondamente maschilisti e patriarcali.
La giusta punizione consiste nella pubblicazione di immagini e video privati perché, ancora oggi, nel 2019, una donna che fa sesso e ne gode è da condannare e recriminare con le peggiori ingiurie. Mentre l’uomo non è mai punito con altrettanto odio mediatico, anzi, generalmente è lodato per le sue prodezze sessuali e per aver condiviso con la comunità il prezioso bottino.

Azzardarsi a godere durante un rapporto sessuale è da poco di buono e se le immagini di una donna mentre fa sesso finiscono su internet, centinaia di migliaia di persone si sentono legittimate a biasimare la vittima e sputarle addosso le peggiori ingiurie perché la società continua a credere che solo la donna sia colpevole del peccato dell’aver provato piacere.

La punizione consiste nello screditare la donna con un’umiliazione pubblica che causa ripercussioni molto gravi sull’equilibrio psicologico della vittima, sulla sua vita professionale e familiare. L’obiettivo è proprio quello di minare la stabilità della donna e la sua indipendenza, anche economica. In questo modo l’autore della pubblicazione ritorna in possesso del potere perduto, della predominanza sulla vittima e soddisfa l’offesa ricevuta o il danno patito “rimettendo al suo posto la donna”.

Quindi smettiamola di chiamarlo revenge porn, almeno per noi stesse. Il rischio è che, in modo inconscio, si continui a negare l’identità e la libertà sessuale che, con grande fatica e determinazione, le nostre nonne e madri hanno conquistato per noi.

È importante chiamarla pornografia non consensuale, la differenza con la pornografia tradizionale risiede proprio nella consensualità alla pubblicazione – da parte di entrambi – di video, foto o altro materiale.
Tiziana, Emma, Paris, Giulia, così come tutte le vittime di questo crimine, non hanno mai espresso la volontà di pubblicare le loro immagini private. Non hanno mai desiderato le centinaia di visualizzazioni, le email e i messaggi violenti che hanno ricevuto (“Forza, facci vedere altro puttana, lo so che ti piace”, “Stanotte ti entro in casa e ti vengo a sborrare addosso” “Ti meriti di essere violentata da un gruppo di negri inferociti, mignotta” “devi morire” “vergognati di esistere” “spero che ti ammazzi”).
La violenza e il volume di questi messaggi possono distruggere la vittima, fino al punto da spingerla al suicidio, come nel caso di Tiziana.

Questo non vuol dire che non possiamo farci video intimi o foto erotiche. Possiamo liberamente e volontariamente voler condividere una foto o un video sensuale con il partner, spesso nelle relazioni a distanza può essere una buona ricetta per combattere la nostalgia. In altri casi può trattarsi di un gioco o un modo per stuzzicare il compagno in modo sano e libero.
Il problema è che le nuove tecnologie, gli smartphone ed i social network hanno invaso le nostre vite; siamo così abituate a condividere tutto che viviamo perennemente onlife e, spesso, perdiamo la cognizione della dimensione della rete, ignorando le conseguenze di un semplice click e la cascata di condivisioni che ne potrebbero conseguire.

La differenza tra “voglio condividerlo con il mio partner” e “non voglio condividerlo con migliaia di estranei”, sfugge a molti e, spesso, quando il video diventa virale si possono fare ben poche cose. Per questo è importante che, nel caso si vogliano scattare delle foto o registrare dei video erotici, dobbiamo innanzitutto avere la consapevolezza profonda della differenza tra la dimensione della camera da letto – o dovunque piaccia farlo – e la dimensione della rete, perché una volta che il contenuto viene condiviso sulla rete è quasi impossibile recuperare il controllo dei contenuti (per rete, ai fini del presente articolo, si intende anche tramite WhatsApp).

Il disegno di legge passato alla Camera dei Deputati nella seduta del 2 aprile 2019, se approvato, introdurrà il reato di condivisione di immagini o video intimi di una persona senza il suo consenso, attuato sia online che offline. Tale condotta sarà punita con la reclusione da uno a sei anni e la multa da euro 5.000 a euro 15.000.
Anche se questo provvedimento colmerà una grave lacuna nel nostro ordinamento e offrirà un valido strumento per perseguire gli autori di questo crimine, la difesa migliore continuerà ad essere la consapevolezza.
Allora cosa fare?

Certo non dobbiamo autocensurarci né evitare dar sfogo ad un desiderio o ad una fantasia. Non credo nemmeno che sia giusto vivere con ansia l’intimità solo perché le nostre vite sono ormai ritmate da bit e like su Facebook.

Ecco alcuni piccoli consigli che ci aiuteranno affrontare meglio queste situazioni e a difenderci:
1. Cerchiamo sempre di evitare che la foto riprenda il volto, in modo tale da impedire di essere riconosciute.
2. Anche se crediamo di poterci fidare del nostro partner, cerchiamo di conservare questo materiale sul nostro smartphone o su un dispositivo che possiamo controllare. Se desideriamo condividerlo facciamolo tramite canali criptati che cancellano il contenuto in modo automatico allo scadere di un timer che impostiamo noi (es. Telegram ha l’opzione di cancellare i contenuti della conversazione dopo un tempo predeterminato)
3. Dopo che è trascorso un po’ di tempo dall’invio dei contenuti chiediamo al partner di cancellare le foto e i video che abbiamo inviato.
4. I telefoni ed i computer possono esser rubati, o banalmente portati ad aggiustare, non sapremo mai chi può mettere le mani sui nostri device e visualizzare (o peggio sottrarre) il contenuto. Pertanto cerchiamo di conservare il materiale sensibile in cartelle criptate o con password forti.
5. Nel momento in cui ci scattiamo una foto o facciamo un video, pensiamo a cosa proveremmo se dovesse finire nelle mani sbagliate, se la sensazione è di profonda vergogna o imbarazzo evitiamo di condividerlo…
6. Se dovesse succedere il peggio e qualcuno ci ricattasse o minacciasse di pubblicare le foto, niente panico, non c’è nulla di cui vergognarsi, non abbiamo fatto nulla di sbagliato o riprovevole, il ricattatore fa leva su un sistema maschilista che poggia sulla nostra fragilità, il potere coercitivo risiede nel nostro timore e nella presunzione che non reagiremo per paura. Questo potere si può sgretolare facilmente chiedendo aiuto, uscendo alla luce del sole e denunciando. Emblematico l’esempio di Emma Holten che ha spontaneamente posato nuda su una rivista dimostrando che non c’è oscenità né volgarità nel suo corpo nudo, ma solo bellezza ed integrità.
7. L’estorsione è un reato, posare nuda per delle foto no. Se qualcuno ci minaccia rivolgiamoci immediatamente ad un avvocato.
8. Se i video o le foto che abbiamo fatto finissero su internet rivolgiamoci alla polizia postale e, soprattutto, a società che si occupano di web reputation, ci aiuteranno ad arginare la viralità dei contenuti e ad evitare che le nostre foto intime si diffondano in modo capillare sulla rete.
9. Non pensiamo di essere sole in questa situazione, tantissime donne condividono foto e video e poi si trovano in situazioni spiacevoli. Non c’è colpa. Si deve stare attente, ma è una pericolosa sciocchezza pensare che la condivisione di una foto e un video intimo con una persona fidata giustifichino la condivisione ad un pubblico indiscriminato della propria intimità. Questa non è “una giusta punizione”, questo è solo un atto deliberato e meschino compiuto da persone violente e codarde.

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