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Perché il suicidio di Brittany non è indegno come dice il Vaticano

Perché il suicidio di Brittany non è indegno come dice il Vaticano

Le gravi parole di Mons. Carrasco de Paula, presidente della Pontificia Accademia per la vita, nel severo commento alla vicenda di Brittany Maynard

Lunedi, 17/11/2014 -
“Il suicidio assistito è un’assurdità” perché “la dignità è altra cosa che mettere fine alla propria vita.” Le gravi parole di Mons. Carrasco de Paula, presidente della Pontificia Accademia per la vita, nel severo commento alla vicenda di Brittany Maynard, meritano qualche riflessione. Innanzitutto, definire un’assurdità il suicidio significa ignorare deliberatamente un’illustre tradizione filosofica – la stoica – che rivendica il suicidio razionale come scelta doverosa da parte del saggio che non si sente più all’altezza del suo compito. Certo, si tratta di un pensiero che l’etica cristiana condanna in base al principio che la vita è un dono divino di cui l’uomo non può disporre. Il suicidio – ci è stato insegnato – è un peccato mortale: l’entrare nell’esistenza come l’uscirne non è nel diretto dominio dell’uomo, ma solo di Dio.



E tuttavia, che ci piaccia o no, è in nome della propria dignità che Brittany ha deciso di darsi la morte. C’è la dignità, rispettabilissima, di chi decide di sopportare la sofferenza fino all’estremo limite, in una volontaria espiazione o nell’abbandono fiducioso al volere divino, ma c’è quella, altrettanto rispettabile di chi rifiuta ogni concezione doloristica e in nome della propria autonomia, decide di prendere congedo dalla vita, “senza arrecar danno ad alcun altro”. Parole del filosofo David Hume, un moderno difensore del suicidio come atto di libertà. Ed è appunto un atto di libertà quello che ha compiuto Brittany, una decisione consapevolmente assunta. Ne conosciamo la storia: quella di una giovane donna che scopre di avere un tumore al cervello, si sottopone ad un intervento chirurgico che non riesce però a fermare la progressione del male e che, in assenza di ogni opzione di cura, decide di porre termine alla propria vita, sostenuta pienamente dalla famiglia e dal marito. Si trasferisce in Oregon, paese che consente il suicidio assistito, e, accompagnata dal medico, si consegna alla morte.“Non c’è una sola cellula del mio corpo che vuole morire - ha scritto -. voglio vivere. Proprio per questo, però, dovendo morire, ho deciso di farlo alle mie condizioni.”



A differenza di altri casi assai controversi, come quello ad esempio di Eluana Englaro, la vicenda di Brittany è estremamente limpida. Ci troviamo infatti dinanzi a una richiesta esplicita di eutanasia volontaria, una richiesta che proviene da una persona maggiorenne, nel pieno possesso delle sue facoltà, fermamente determinata nella sua scelta, che chiede di essere aiutata a morire. Qual è il timore? Che la richiesta di eutanasia di Brittany possa diventare un’eutanasia di stato, che da scelta personale si trasformi in una sorta di obbligo collettivo, un modello che saremo tutti invitati a seguire? Ancora una volta si deve constatare che parole come eutanasia - o, in altri contesti, eugenetica - portano con sé una carica ideologica così forte da evocare irresistibilmente i fantasmi del passato, del nazismo, della morte imposta a soggetti ritenuti indegni di vivere.



Chi intenda resistere alla tentazione, fin troppo praticata nel dibattito bioetico, del cosiddetto ‘piano inclinato’, - ovvero ‘di questo passo, dove andremo a finire?’-, potrebbe. infine, interrogarsi sul ruolo del medico nel suicidio assistito. Argomento di straordinaria delicatezza e complessità che dovremmo tuttavia, anche nel nostro paese, cominciare ad affrontare pensando - perché no? - al grande Bacone. Il quale ammetteva l’eutanasia e riteneva che il medico, in talune condizioni, dovesse avere anche la possibilità di aiutare a morire, predisponendo tutto in modo che il transito avvenisse nella maniera meno dolorosa possibile. Una proposta indecente? Una provocazione scandalosa? Si ricorderà che, qualche anno fa, il Presidente della Repubblica, intervenendo sul caso Welby, aveva posto al Parlamento il problema del diritto di ciascuno di poter decidere della fine dignitosa della propria vita. In tal modo si era evidenziata la necessità di un incontro tra piano istituzionale ed esistenza umana: l’esigenza, in altri termini, di una politica sensibile alle richieste personali degli individui e attenta ai loro bisogni esistenziali più profondi. Una politica in cui si parli di ben vivere e, quindi, anche di ben morire.



Luisella Battaglia

Membro del COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA



(Articolo pubblicato in prima pagina su Il Secolo XIX del 5 novembre scorso)

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