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Pacifiste. Ma non sempre

Pacifiste. Ma non sempre

Le donne e la guerra - Le donne hanno saputo, e sanno scegliere, le ragioni per cui vale la pena di imbracciare le armi. Lo abbiamo visto durante la Resistenza e lo vediamo oggi con le curde in lotta contro l’Isis

Stefania Friggeri Lunedi, 14/03/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2016

Lo spirito che anima l’art. 11 della Costituzione è lo spirito di pace generato nella popolazione dall’orrore per le atrocità della guerra e dalla consapevolezza che la guerra non solo non risolve i problemi, ma li complica e ne genera altri (vedi ad esempio i casi Libia e Iraq). L’articolo 11 tuttavia non si ispira ad una forma di pacifismo integrale, alla Gandhi, ed infatti venne ricostituito un esercito di popolo obbligatorio e riservato ai maschi.

Ma le donne non sono imbelli e hanno sempre imbracciato le armi se motivate da una causa giusta ai loro occhi. Vedi oggi le donne di Rojava, la regione del Kurdistan occidentale dove è in atto il tentativo di dare vita ad una autentica democrazia dal basso: tutto viene deciso secondo la normativa “una testa un voto” e le donne godono della parità di genere in tutte le sfere della vita pubblica e privata. Conquiste irrealizzabili se vincesse l’Isis e pertanto le donne curde hanno preso le armi: il merito di aver cacciato gli jihadisti da Kobane viene riconosciuto ad Afrin, una comandante donna. Ma il modello di Rojava non potrà allargarsi se alle miliziane curde verrà riservato il destino che di norma si riserva alle donne combattenti quando arriva la pace, e cioè il silenzio della memoria.

È stata una donna, Svetlana Aleksievic (leggi articolo di Carpinelli in questo numero, pag 26, ndr), ad intervistare le donne che hanno combattuto le armate nazifasciste dopo l’invasione della Russia: a migliaia, anche giovinette, hanno coperto i vuoti lasciati dagli operai e dai militari impegnandosi nei ruoli più diversi, come radiotelegrafiste, geniere sminatore, tiratrici scelte e così via. La loro guerra è diversa da quella narrata dagli uomini, più umana e senza eroismi: parlano di fame, freddo, sporcizia e non nascondono di aver avuto paura. “La guerra ‘al femminile’ - commenta Svetlana - ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti ed anche parole sue”. Parole che molte donne dicono per la prima volta nella loro vita perché, come dice il titolo del libro, La guerra non ha un volto di donna.

Anche Angelo del Boca così si esprime scrivendo intorno alla Resistenza italiana: “Le donne nella Resistenza sono ovunque. Ricoprono tutti i ruoli. Sono staffette, portaordini, infermiere, medichesse, vivandiere, sarte. Diffondono la stampa clandestina. Trasportano cartucce ed esplosivi nella borsa della spesa. Sono le animatrici degli scioperi nelle fabbriche. … Un certo numero di donne imbraccia le armi … Tuttavia le donne non hanno ottenuto il riconoscimento che meritavano”. Più sintetico ma efficace Arrigo Boldrini (nome di battaglia Bulow): “Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza”. Dopo l’8 settembre le donne rivestirono con abiti civili le migliaia di soldati lasciati senza ordini dal re e da Badoglio in fuga. “Non fosse per le citazioni sparse nei film … questa gigantesca operazione di travestimento, forse la più grande di tutti i tempi, sarebbe rimasta quasi del tutto ignorata … Le donne che svestono e rivestono i soldati disfano quello che l’esercito ha fatto … Resta intatto il rilievo simbolico, e resta quello politico”. (Bravo, Bruzzone).

Il silenzio delle istituzioni e della storiografia si spiega con l’incapacità di sfuggire ai preconcetti della cultura italiana, come dimostra il senso di colpa che spesso parenti e carcerieri insinuavano nelle donne che, avendo scelto la militanza, trascuravano la famiglia. Ed infatti dopo la Liberazione molte partigiane si sono mostrate riluttanti a sfilare nei cortei e solo la storiografia più recente, soprattutto grazie alla documentazione orale, ha saputo trasmettere quanto di nuovo e diverso emerge dal vissuto delle donne, dalla sensibilità e dai criteri del loro sesso.

Dal 2004 il servizio nell’esercito, allargato ora anche alle donne, ha assunto un carattere professionale, su base volontaria: alla guerra di popolo difensiva, ultima ratio se falliscono le trattative diplomatiche, subentra una guerra combattuta da volontari mossi dalle motivazioni più varie. Anche la guerra dunque ubbidisce al mantra mediatico del neoliberismo: il privato è bello. E mentre vengono ridotti gli investimenti per il lavoro, la scuola e la sanità, la crisi non impedisce di spendere milioni di euro per comprare gli F/35 e altre armi d’attacco. Eppure le più alte cariche dello Stato sono rappresentate da cattolici praticanti, figli di una cultura cristiana che si è sempre interrogata sulla guerra.

È vero che i papi hanno bandito le crociate e guerreggiato, ma la secolare storia della Chiesa conosce molte discordanze. Ad esempio i primi cristiani rifiutavano di combattere ma successivamente, dovendo difendere dai barbari l’impero divenuto cristiano, dopo la battaglia dovevano digiunare e non potevano entrare in chiesa per un certo tempo; la cluniacense tregua di Dio (anno Mille) vietava di combattere dal mercoledì sera al lunedì mattina durante la Quaresima, l’Avvento e la vigilia delle feste religiose; nel 1395 i Lollardi inglesi rifiutarono le armi appellandosi ai passi del Vangelo; nel ‘600 i gesuiti del Paraguay evangelizzarono gli indios con la parola, non con la violenza, e così via fino a don Milani, processato per aver sostenuto l’obiezione di coscienza. Ma nel mondo di oggi (guerra atomica, chimica. batteriologica) anche l’alto magistero si è interrogato sulla liceità della “guerra giusta”.

Dopo la “Pacem in terris” (Giovanni XXIII, 1963), che ha segnato una svolta nella storia della Chiesa cattolica correggendo i giudizi negativi sull’umanità corrotta dal peccato di Adamo (riconosciuta l’irrazionalità e la follia della guerra, “bellum alienum a ratione”), gli uomini, credenti e non credenti, possono costruire la pace con la fiducia reciproca e la buona volontà. Papa Bergoglio, in linea con la “Populorum progressio” (“Sviluppo è il nuovo nome della pace”, papa Paolo VI, 1967), non esita a denunciare il motore della guerra nello sfruttamento e nella volontà di potenza. Svelando il conformismo perbenista delle classi dirigenti, che applaudono ma poi tutto continua come prima.



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COSTITUZIONE REPUBBLICA ITALIANA, ARTICOLO 11

L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

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