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Le spose della luna di Emma Fenu: dal miele di corbezzolo all'idromele - a cura di Angela Paola Bald

Le spose della luna di Emma Fenu: dal miele di corbezzolo all'idromele - a cura di Angela Paola Bald

Dopo la lettura de Le spose della Luna di Emma Fenu, edito da Officina MIlena nel 2020, Mi son chiesta come mai l'autrice citi così spesso il miele in tutti i suoi romanzi. Allora mi è tornata in mente l’opera che scrisse Salvatore Cambosu nel 1954,

Venerdi, 16/04/2021 - Leggendo le “Spose della luna” di Emma Fenu non si può non venire rapiti dal fascino
della narrazione prodotta dall’autrice. Una narrazione precisa, lineare, ricca di particolari e
di metafore ai confini col poetico, evocatrice di un ambiente arcaico e ricco di simbologie,
dove possiamo ritrovare le radici della storia e della tradizione di una realtà unica nel suo
genere.
La protagonista della storia è Franzisca, giovane donna latitante che si dà alla macchia
perché accusata di essere un’assassina e come la bandita Pasca Devaddis, realmente
vissuta ad Orgosolo nel primo Novecento, la cui figura ha ispirato il personaggio
romanzato dalla scrittrice. Paska Devaddis, infatti come Franzisca fugge sui monti del
Gennargentu per raggiungere il suo promesso sposo, anch’egli latitante.
Qui Franzisca morirà dopo essersi ammalata, proprio come succede a Paska e i suoi amici latitanti riporteranno il suo corpo nella casa natale durante la notte, perché
la donna non subisca l’onta di non aver avuto un regolare funerale. Sua madre, infatti,
provvederà, come di consuetudine, a lavare e a vestire il corpo ormai senza vita della cara
figlia, coi colori sgargianti e fieri del costume tipico della sposa, lo stesso che avrebbe
dovuto indossare il giorno del suo matrimonio con l’amato Istevani.

Nel romanzo l’ambiente, le tradizioni e gli umori della gente pare siano uniti da un unico
filo tessuto da un antico telaio, forse il telaio delle mitiche “janas”, fate o streghe che
secondo le leggende locali potevano dare o togliere la vita agli uomini.

Scorrendo le pagine possiamo pare di sentire i canti della nostra antica lingua: nenie
sofferte che cantano il destino di genti a cui la cui la sorte non ha lasciato altre scelte che
quelle di farsi giustizia con le proprie mani. Un’amara realtà che tutt’oggi sopravvive in
alcuni luoghi dell’Isola ed è così radicata come un’erba maligna che non si riesce ad
estirpare.
Ma in mezzo a tanto dolore, a tanto affanno gorgoglia la vita come acqua fresca di
sorgente, e allora si può riuscire ad intravedere le scene, sentire i particolari profumi: ti
sembra di assaporare quel pane appena sfornato che le massaie usavano preparare
quando ancora era notte fonda, di sentire il profumo acre e pungente della legna che arde
scoppiettante nella notte, dentro una grotta tra le montagne che funge da rifugio, di udire
lo scorrere del ruscello sulle pietre levigate e di vedere quel leccio, citato all’inizio del
romanzo e metafora dell’essere umano, che con tanta forza e coraggio si aggrappa alla
vita, affondando le sue radici nella roccia indurita e protende le sue floride “braccia” verso
l’alto, quasi a richiamare il profondo legame che unisce la terra al cielo.

E poi il miele… Mi son chiesta come mai Emma citi così spesso il miele in quest’opera, e
non solo in questa (vedi “Le dee del miele”, “Sangue e miele”, ecc.). Allora come avendo
avuto un’intuizione, mi è tornata in mente l’opera che scrisse Salvatore Cambosu nel 1954, “Miele amaro”. Sì proprio quel miele che, guardacaso viene prodotto solo in Sardegna ed
in Toscana, il miele che le api provvedono in autunno, dai fiori dell’arbusto di corbezzolo
dai quali nascono quelle bacche ruvide, rosse e tanto saporite, tipiche della macchia
mediterranea. Quel miele dal colore cangiante, a volte ambrato, altre tendente sui toni del
marrone scuro; unico nel suo sapore, non facile da apprezzare nell’immediato a causa del
suo aroma forte e deciso. Però, quando lo si gusta bene, proprio come si cerca di
conoscere l’anima autentica della nostra Sardegna, coi suoi pregi e difetti, non puoi non
farti ammaliare dalla sua prelibatezza, e come scrive lo stesso Cambosu nella sua opera
citata, anche le janas ne sono terribilmente ghiotte.
Credo che sia per questo che Emma
Fenu citi spesso il miele, da cui si ricava l’idromele, conosciuto anche come nettare degli
dei. Quello di corbezzolo in particolare si collega all’essenza della nostra terra, ancora
tutta da scoprire ed apprezzare.

Angela Paola Baldino

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