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Le kamikaze bambine del Cameroun

Le kamikaze bambine del Cameroun

Not in my name/3 - I terroristi di Boko Haram fanno esplodere tra la folla bambine costrette a indossare cinture che portano la morte

Emanuela Irace Giovedi, 03/12/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2015

 Il colonnello Didier è il portavoce del ministero della difesa del Cameroun .

Un ministero strategico da quando a fine luglio gli attentati suicidi di Boko Haram hanno annullato ogni possibile resistenza dell’esercito. Un’evoluzione di strategia che fino ad oggi utilizzava mine ed esplosivi sul territorio. Una mattanza, specie per le popolazioni dell’estremo nord del paese, ai confini con la Nigeria, lo stato che ha allevato Boko Haram. Il gruppo terrorista affiliato al Daesh che arruola con la forza o volontariamente migliaia di giovani combattenti. Sono soprattutto ragazze.

Bambine che si arrabattano, con una età tra i dieci e quindici anni.

Senza istruzione e senza mezzi. Venditrici ambulanti di datteri che per 10 dollari diventano portatrici di morte, spesso inconsapevolmente. Le cinture di esplosivo ai fianchi sembrano una merce e poi ti pagano bene per trasportare quella merce così preziosa. E tu lo fai perché tua madre ha altri sei figli e pensi di esserle d’aiuto così, con i dieci dollari che porterai a casa la sera, senza sapere che da qualche parte c’è qualcuno che premerà un tasto e bum, di te e della tua cintura non resterà niente.

Esplosione a distanza.

L’evoluzione del jihadismo nel Cameroun passa attraverso i corpi delle bambine e il colonnello Didier lo sa, ma ha pochi mezzi per contrastare l’offensiva di Boko Haram, traduzione letterale di “l’educazione occidentale è peccato”. Nonostante le politiche tra paesi confinanti per coordinare le azioni anti terrorismo comuni all’area. Nonostante la difficoltà di ottenere risultati, quando i 5 stati del Sahel premono per rigettar fuori dai propri confini i guerriglieri jiahdisti che così si riversano nei paesi limitrofi. Come in Cameroun che da due anni lotta senza alcun supporto esterno.

Per fortuna c’è l’ONU.

Il 13 luglio il dipartimento della sicurezza delle nazioni unite manda una informativa, per aiutare le forze governative a smascherare i jihadisti in cui si legge: “Sono individui sospetti la cui attitudine suggerisce siano portatori di materiale esplosivo artigianale. Bisogna fare attenzione al viso, più chiaro dove la barba è stata rasa da poco. Sono individui molto concentrati e attenti, spesso parlano tra sé e sé, molto probabilmente perché recitano l’ultima preghiera. Indossano vestiti sporchi e pesanti. E camminano con determinazione”. Una descrizione che non funziona in Cameroun e Didier lo sa, le sue bambine indossano abiti leggeri e puliti e non si fanno la barba.

E intanto muoiono.

Come le quattro donne che lo scorso 21 novembre sono saltate in aria uccidendo capo villaggio e famiglia, in un sobborgo di Fotokol, a pochi chilometri dalla capitale del Tchad dove il 19 si era aperto il summit G5 Sahel contro il terrorismo. In Italia lo chiameremmo un avvertimento, in Cameroun è l’ennesimo attentato che fa psicosi tra la gente. In una intervista rilasciata al “Cameroon Tribune” il colonnello Didier Badjeck spiega: “A volte l’esplosivo viene semplicemente consegnato alle giovani che ignorano cosa contenga il pacco che trasportano. Sono ragazzine e adolescenti provenienti dagli ambienti più disagiati. Quando i terroristi le vedono arrivare in mezzo alla folla si aziona un comando a distanza e la bomba esplode. Abbiamo raccolto molte testimonianze al riguardo e sappiamo che questa modalità viene ormai utilizzata sempre più spesso”. Diversamente dalla Nigeria, dove Boko Haram utilizza la tecnica dei sequestri di massa e le giovani kamikaze “scelgono” di darsi la morte per porre fine al calvario della prigionia e sfuggire a torture sessuali. Come nel caso delle liceali rapite a Chibok nell’aprile 2014.

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