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Le donne e l'Isis: non solo schiave del Califfato

Le donne e l'Isis: non solo schiave del Califfato

Al Festival Internazionale del Giornalismo (Pg) si è parlato (anche) del ruolo delle donne nell'ambito del terrorirmo religioso e dell'Isis

Giovedi, 13/04/2017 - Se pensiamo alle donne in relazione all’Isis non abbiamo dubbi: le vediamo usate come schiave prive di diritti, come corpi a disposizione degli uomini del Califfato. Questa narrazione non corrisponde esattamente alla realtà, perché, come hanno ammesso anche i servizi francesi, “il ruolo delle donne arruolate da Isis è stato sottostimato e sta subendo un’evoluzione che va osservata meglio”. Il tema, con il titolo “Spose, schiave e cospiratrici. Le donne dell'Isis“, è stato trattato in un panel (video) nell’ambito del Festival Internazionale del Giornalismo che si concluso a Perugia domenica 9 aprile e che ha visto dialogare Marta Serafini (Corriere della Sera) e Lorenzo Vidino (direttore Program on Extremism GW Univ).

“Le ragazze che partono per andare a sostenere Isis sono tante – ha detto Marta Serafini (video) aprendo la discussione - e dobbiamo porci alcune domande su questo fenomeno: che cosa fanno, una volta raggiunti i gruppi che le hanno arruolate? Anche quando vengono usate come schiave a disposizione dei terroristi, come le dobbiamo considerare? Sono vittime che sono state manipolate? Era settembre quando la polizia francese ha scoperto una Peugeot parcheggiata vicino alla cattedrale di Notre Dame. A piazzare quegli ordigni sono state tre donne. Oltre il singolo episodio francese, sono tante altre le donne affiliate all’organizzazione terroristica di Abu Bakr Al Baghdadi. Francia, Gran Bretagna, Italia. Ogni paese ha i suoi esempi. Maria Giulia Sergio che ha gridato il suo odio contro gli infedeli via Skype, Meriem Rehaily che è partita dopo aver diffuso su internet una lista di bersagli. Alcune di queste donne sono morte. Altre sono tornate. E altre ancora sono state arruolate in Europa così come negli Stati Uniti”. Si tratta di questioni di ampio spettro e riguardano anche il tema dell’integrazione. “Sono ragazze cresciute nelle nostre città, ma che evidentemente hanno mantenuto un legame con i paesi dove adesso c’è una guerra , è difficile comprendere le ragioni che hanno portano giovani donne a lasciare la loro vita e delle libertà. Se ci domandiamo quale meccanismo ha permesso al processo di radicalizzazione di attecchire non possiamo non osservare che nelle nostre città ci sono ghetti, in cui vivono separati i vari gruppi, che le discriminazioni ci sono per l’accesso alla casa o al lavoro. Quando si parla di terrorismo lo scenario si fa globale, ma occorre un’attenzione anche a ciò che si muove a casa nostra o che potrebbe avvenire”.

Lorenzo Vidino (video) ha fornito strumenti di lettura del fenomeno dei foreign fighter. “La domanda è difficilissima perché non esiste un soggetto unico che si radicalizza, ma abbiamo vari casi: un range di età enorme, percorsi di radicalizzazioni diversi. Non esiste un profilo comune, quindi, e se sono diverse le traiettorie che portano a fare la scelta dell’adesione al terrorismo, anche le motivazioni sono diverse. Questo vale anche per le donne, la cui radicalizzazione è un fenomeno crescente, ma non è nuovo: penso a Barbara Farina, italiana convertita, che negli anni Novanta era attiva con ciclostilati e poi con un blog. Anche per le donne abbiamo una enorme eterogeneità di profili, che hanno peculiarità diverse rispetto agli uomini. Uno studio in Gran Bretagna ha mostrato come la radicalizzazione riguardava uomini poco integrati e con profili personali problematici, mentre le donne erano quasi tutte laureate o orientate verso studi di medicina o educazione, cioè volevano diventare insegnanti o mediche, insomma erano soggetti con la vocazione alla cura. Va anche detto che non è corretto pensare le donne come soggetti deboli e passivi: è sbagliato oltre che offensivo. Tra le donne, come tra gli uomini, si possono trovare soggetti più fragili oppure dotati di forti personalità. Quindi ci sono profili molto diversi”.

Altra questione, non meno centrale, riguarda il fenomeno di chi, dopo essere stato foreign fighter, decide di tornare indietro. “I numeri sono ancora provvisori - sottolinea Serafini -, ma il tema è come trattarli anche sul piano giuridico, nel caso in cui non abbiano ricevuto una condanna. Per le donne la cosa è ancora più complessa, anche perché spesso hanno dei bambini. C’è poi il tema del recupero, delle possibilità di reintegro. occorrono nuove risposte. Quali sono gli strumenti che mancano, anche in relazione ai problema di sicurezza ma senza violare i diritti delle persone e i principi che regolano degli stati democratici?”

VIdino risponde. “La questione che poni è come agire su persone che sono chiaramente radicalizzate, potenzialmente pericolose ma contro le quali è impossibile agire utilizzando gli strumenti di legge che abbiamo al momento. Occorre dimostrare, attraverso prove, che questi soggetti si sono uniti all’Isis, cosa che è molto, molto difficile. Poi ci sono soggetti che non sono partiti, ma che sono noti per essere molto attivi sulla tastiera e adottano il credo dello stato islamico, una attività che non è di per sé punibile. Gli attacchi in Europa sono quasi tutti stati fatti da soggetti noti per questo. La prima da cosa da fare è monitorare, ma è impossibile monitorarli tutti perché sono un numero enorme. Allora si cerca di prevedere quali possono essere quelli che passeranno dal computer all’azione terroristica. Per quelli che rientrano e che vanno reinseriti nella società occorre un altro percorso molto complesso e che va personalizzato a seconda delle caratteristiche dei soggetti. Sono interventi che consentono la riduzione della minaccia, ma va considerato che si opera con una carenza o addirittura mancanza di strumenti giuridici”.

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