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L’applicazione della legge 194/78 e la riduzione degli aborti

L’applicazione della legge 194/78 e la riduzione degli aborti

Salute bene comune - L’evoluzione del ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) dimostra quanto sia potente l’investimento sulla competenza delle donne

Michele Grandolfo Domenica, 09/06/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2013

L’evoluzione del ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) rappresenta una eccellente dimostrazione di quanto sia potente l’investimento sulla competenza delle donne nella promozione della salute, intesa come azione finalizzata ad aumentare la capacità di controllo autonomo sul proprio stato di salute (Carta di Ottawa, 1986). Prima della legalizzazione si stimavano con modelli matematici 350mila aborti/anno, stima compatibile con i risultati dell’indagine sulla fecondità coordinata da De Sandre nel 1979, con circa il 5% e il 15% di donne coniugate in età feconda residenti rispettivamente al Centro Nord e al Sud. A ulteriore conferma sta la stima di 100mila aborti clandestini (il 70% al Sud), sempre con modelli matematici, riferita al 1983, a fronte delle circa 230mila IVG riportate dal sistema di sorveglianza epidemiologica per quell’anno. Per inciso, l’ipotesi di persistenza di aborti clandestini era suffragata anche dalla irragionevolezza di una abortività legale più bassa (anche di 2-3 volte) nel Sud rispetto al Centro Nord, con la eccezione della Puglia in cui si registrava una incidenza di IVG compatibile con quanto ottenuto dall’indagine sulla fecondità. La sostanziale differenza tra la Puglia e le altre regioni meridionali stava nella ampia diffusione dei servizi per l’IVG sul territorio imposta dal governo regionale dell’epoca, anche attraverso un notevole coinvolgimento (con argomenti convincenti) delle cliniche convenzionate. Dal che si evidenziava quanto la carenza dei servizi fosse la causa preminente della persistenza dell’aborto clandestino, prevalentemente al Sud.

Le indagini condotte nel 1982 confermavano che il ricorso all’aborto non era una scelta di elezione ma la conseguenza di un fallimento del metodo impiegato per il controllo della fecondità, fallimento dovuto al ricorso a metodi a bassa efficacia e/o a un loro uso scorretto, quindi il ricorso è ultima ratio.

L’aver riconosciuto alla donna l’ultima parola, cioè aver riconosciuto la sua responsabilità e competenza decisionale è stata la chiave di volta. L’impegno dei consultori familiari a fornire counselling sulla procreazione responsabile, in primis nel percorso nascita, e a offrire corsi di educazione sessuale nelle scuole ha rappresentato l’opportunità per la promozione della salute. In effetti, come era da attendersi, il rischio generale di gravidanza indesiderata è andato diminuendo costantemente nel tempo (così come diminuiva sistematicamente la stima dell’aborto clandestino) tanto che, stimato con un modello matematico (avendo assunto la costanza del rischio) l’andamento delle percentuale di aborti ripetuti, il livello di plateau, raggiunto dopo trenta anni (tempo di sostituzione della coorte in età feconda), si assestava sul 50% a fronte dell’osservato 20% (considerando solo le donne di cittadinanza italiana). In aggiunta, l’andamento dei tassi di abortività specifici per istruzione e per occupazione confermavano l’ipotesi dell’espressione di competenza (empowerment). Per le donne più istruite e per le occupate il trend in diminuzione è stato più rapido rispetto a quello osservato per le meno istruite e non occupate, essendo le prime con livelli di competenza di partenza maggiori e quindi maggiormente capaci di “cercare salute” e utilizzare le opportunità offerte in primis dai consultori familiari. La riduzione del tasso di abortività dal 17 per mille donne in età feconda (1982) al meno del 7 per mille (2010) è la più potente testimonianza della capacità delle donne di avere capacità di controllo del proprio stato di salute.



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