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L’ampia gonna marrone, il racconto di Matilde Tortora

L’ampia gonna marrone, il racconto di Matilde Tortora

... la bottega di Funztiello ‘O Zuzz, dove ci veniva comprato un buonissimo pane affettato ripieno di cose che solo a guardarlo...

Mercoledi, 22/07/2020 - L’ampia gonna marrone
di Matilde Tortora

L’ampia veste altrui avvolge, svela, ostruisce o costruisce tutto un mondo quando si è bambini. Così era per la suora portinaia che ci nascondeva, di noi ostruiva la vista quando un genitore, un parente si presentava in portineria a prelevarci. E poteva farlo, non so per quale ghiribizzo o esercizio di potere, trattenerci nascondendoci dietro l’ampia gonna marrone da carmelitana.

Non c’è, non è ancora arrivato - diceva e ci spingeva con la mano all’indietro per non farci vedere.

Noi, che non vedevamo l’ora di essere portati via, costretti a indugiare, a non rivelarci, in bilico tra l’essere ricacciati indietro nell’ampio chiostro alle nostre spalle e l’andare via.

A destra del chiostro le aule rispettive, a sinistra la porta che lateralmente, accedendovi dalla sacrestia, conduceva in Chiesa alle varie funzioni che lì si succedevano instancabilmente. Dal chiostro una folata di vento a volte giungeva fino a noi in attesa dietro lo scenario di panno marrone (approntato per quale rappresentazione, per quale atto?) e di quella robusta persona di cui eravamo in muta balìa.

A volte noi pure ci convincevamo di non esserci davvero, storditi dall’odore di muffa che proveniva dalle pareti laterali della Chiesa secentesca, misto a quello dei fiori nei vasi portati in sagrestia dopo essere stati tolti dall’altare per il ricambio, ma lasciati lì ancora nell’acqua, ad un passo dal marcire.

Era lo stesso odore che a volte sentivamo dopo un funerale provenire da lì, dove si svolgeva la funzione.

Avevamo fame ogni volta in circostanze simili in Chiesa che quasi ci si annebbiava la vista. Avevamo fame lì dietro l’ampia gonna marrone, costretti a sostare lì senza motivo.

Liberati che poi eravamo e restituiti a chi ci era venuto a prendere, c’era lì fuori, proprio di fronte al grosso portone, la bottega di alimentari di Funztiello ‘O Zuzz, dove ci veniva comprato un buonissimo pane affettato ripieno di cose che solo a guardarlo faceva venire l’acquolina in bocca.
Certo tutto avrebbe dovuto dissuadere gli adulti dal portarci a prendere da mangiare da Alfonso il Sozzo, ma la bottega aveva una sua clientela affezionata e convinta, compresi i nostri genitori e parenti.

A noi andare da Funztiello ‘O Zuzz ci rinfrancava della sosta forzata dietro quel sipario marrone d’inanità e di panno a lungo indossato, unico per tutte le stagioni, ci sembrava che non tutto è come sembra e che le parole potevano avere tanti altri significati. E che per ogni parola c’era un velo che sarebbe spettato a noi di togliere, come un quadro prezioso o una capacità sarebbe stato a noi sapere disvelare. E in sua virtù, sapevano con certezza che non eravamo invisibili e che non saremmo morti, mentre con morsi avidi mangiavamo quel pane casareccio, ripieno di ogni ben di Dio.

Dopo sei estenuanti giorni in cui per lo più si ripeteva il siparietto marrone e incomprensibile, arrivava finalmente la domenica e per lo più la domenica sera zia Clara diceva: che dite, vado a prendere le pizze dall’Acchiappamosche?
Noi per primi entusiasti e anche i nostri genitori acconsentivamo e zia Clara ritornava con le pizze, che erano buonissime e che si facevano mangiare di vero gusto, nonostante aleggiasse su di esse quella parola mosche anche se si era in pieno inverno e rare erano le mosche in quella stagione.

Le pizze, sorrette e separate da un’accorta architettura di legnetti, di cui si sapeva che erano scarti di falegnameria, ridondanti e barocche di condimenti, a volte pure di qualche sfilaccio legnoso che vi era senza volerlo trasmigrato sopra, ci davano forza bastante ad affrontare poi un’altra lunga settimana, e come pure le parole che possono essere anfibie e portatrici di inimmaginabili sorprese, ci sentivamo capaci di andare per ogni dove e magari avere il coraggio prima o poi di fare capolino da dietro quell’ampia gonna di panno marrone e anche un po’ consunta e dire a gran voce: Eccomi, sono qua, sono io!

La foto è di Robert Doisneau

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