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La violenza nel parto che viene da lontano, tra rituali e patriarcato

La violenza nel parto che viene da lontano, tra rituali e patriarcato

Freedom for Birth Rome Action Group e l'incontro di Roma su "La violenza nel parto: antichi e nuovi rituali per il controllo e disciplinamento del corpo della donna"

Lunedi, 08/12/2014 -
Il diritto delle donne di autodeterminarsi nel percorso nascita ed in particolare al momento del parto. Questo il tema della giornata di riflessione organizzata da Freedom for Birth Rome Action Group (Roma, 29 novembre 2014, - photogallery-Casa Internazionale delle Donne). Intorno al titolo "La violenza nel parto: antichi e nuovi rituali per il controllo e disciplinamento del corpo della donna" le organizzatrici hanno chiesto di intervenire ad “addette ai lavori" (ostetriche, psicologhe e medici) ma anche e soprattutto a storiche, antropologhe e bioeticisti, in modo da presentare una prospettiva più ampia che potesse aiutare a fare chiarezza sull'origine e la funzione sociale di pratiche finalizzate al disciplinamento e controllo della donna nel percorso nascita. La scelta di Freedom for Birth-RAG di utilizzare in modo esplicito il termine violenza per definire le pratiche a cui vengono sottoposte le donne (posizioni obbligate, taglio della vagina, lontananza dal bambino ecc), viene così spiegata da Mirta Mattina, una delle due psicologhe del gruppo: "il fenomeno della Violenza Ostetrica sembra essere allo stesso tempo ed in modo paradossale, evidentissimo e invisibile: basta confrontare le routine sanitarie con le raccomandazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e le linee guida dell'Istituto Superiore di Sanità, per rendersi conto dell'evidenza e diffusione del fenomeno. Fenomeno che però appare anche invisibile qualora si decida di parlarne pubblicamente, sembra infatti che operi una sorta di negazione collettiva o di rimozione che impedisce di riconoscere e qualificare come violenti gli atti non necessari e non acconsentiti che vengono agiti sulle donne e sulle persone che nascono". Aggiunge Carmen Rizzelli, l'altra psicologa di FFB - RAG: “proprio l’assenza di consapevolezza e di strumenti culturali per leggere e riconoscere il fenomeno della violenza ostetrica la rende tollerata e cronica, comunque invisibile e non sanzionabile. Seppure lascia profonde ferite psicologiche nelle donne che ne fanno esperienza. Alla difficoltà e al rifiuto a volte anche solo di parlare del tema della violenza ostetrica sembra essere ben collegata l’affermazione di Freud in “Totem e Tabù”, secondo cui “la violazione di un tabù rende a sua volta il trasgressore tabù” (...) e che “alla base di tutti questi divieti si direbbe ci sia una teoria, come se le proibizioni fossero necessarie perché certe persone e certe cose posseggono una forza pericolosa che, quasi come un contagio, si trasmette (…)". Dunque sembra che parlare di violenza nel parto sia percepito come un qualcosa di potenzialmente pericoloso per il sistema patriarcale dominante, anche interiorizzato, ed equivalga ad infrangere un tabù, sfidando una prescrizione sociale scotomizzante che rende invisibile una parte della realtà. In tante altre occasioni le donne si sono trovate in questa stessa condizione, ad esempio, fino a poco tempo fa, anche il termine "violenza domestica" rappresentava un tabù, in quanto veniva negata l'esistenza stessa del fenomeno e, per arrivare al riconoscimento di questo tipo di violenza, è stato necessario un percorso che è partito dalle donne per poi estendersi al resto della società. Spesso l'avvio del processo è attivato da alcune persone che, fungendo da catalizzatori, assumono su di sé il coraggio e la responsabilità di infrangere la proibizione sociale e sfidano il tabù stesso.

Questa riflessione sembra particolarmente importante se pensiamo, come affermato da Michel Odent, che rituali disturbanti il processo del parto sono presenti in tutte le culture patriarcali, quasi che ci fosse la necessità sociale di disconfermare la competenza e potenza materna.

Ma che cos'è la violenza ostetrica? Virginia Giocoli, avvocata del movimento, la definisce come "la negazione del diritto delle donne di compiere scelte informate e autonome e praticare sul loro corpo atti medici non necessari e non acconsentiti dalla donna stessa, durante il travaglio e il parto" e aggiunge che "solo tre paesi al mondo (Venezuela, Argentina e Messico n.d.r.) hanno riconosciuto la violenza ostetrica e l’hanno recepita nel loro ordinamento normativo all’interno di leggi contro la violenza sulle donne. Perché di questo si tratta: di una forma di violenza sulle donne, e come tutte le forme di violenza è causa di effetti dannosi dal punto di vista fisico e psicologico".

Durante il convegno, al quale hanno partecipato anche molte ostetriche sono state particolarmente toccanti le testimonianze di numerose donne che hanno ricordato, con molto dolore e sofferenza, il loro parto e la sensazione di impotenza di fronte alla violenza subita. In particolare hanno fatto riferimento alla limitazione del movimento durante il travaglio, la mancanza di informazioni e coinvolgimento nelle decisioni che riguardavano il loro corpo. La proibizione, senza indicazioni mediche al bere e al mangiare. La negazione del diritto di avere accanto una persona di sua scelta. Subire, senza alcun motivo, pratiche dolorose e violente, come la dilatazione manuale del collo dell'utero e rottura del sacco amniotico, l'obbligo della posizione sdraiata durante il parto, il taglio della vagina e la separazione dalla persona nata immediatamente dopo il parto, senza poter in nessun modo sottrarsi, scegliere o obiettare. L'ostetrica Gabriella Pacini, (videointervista) presidenta dell'associazione Freedom fo Birth-RAG e moderatrice del dibattito, ha ricordato le limitazioni delle libertà che le donne subiscono. Significativo l’intervento di alcuni operatori sanitari, ostetriche e ginecologhe, che hanno condiviso la difficoltà che incontrano, nei loro contesti di lavoro, nel momento in cui provano a mettere in discussione pratiche inutili e routinarie nel percorso nascita. In particolare emerge da alcuni dei loro interventi il tema della paura: da un lato la paura degli/lle operatori/operatrici sanitari/e rispetto alla libera scelta delle donne alla nascita e dall’altro la loro percezione della paura e dell’ansia delle donne stesse durante il parto che le porterebbe a delegare la scelta stessa. La paura sembra proprio il vissuto emotivo che funge da benzina che alimenta e sostiene la macchina dell’ipermedicalizzazione troppo spesso non informata e non acconsentita. Rispettare il diritto alla completa e corretta informazione e l’attuazione di un modello di cura partecipato e centrato sulla persona ci sembra essere un terreno da dover coltivare insieme per uscire dall’empasse e poter passare dalla predominanza della paura/sfiducia alla fiducia. Come sostiene il pediatra Ferraro, presente in sala, ancora troppo poco si fa in questa direzione; ci ricorda infatti che, ad esempio, gli Ospedali Amici dei Bambini in Italia sono attualmente solo 23 e che solo negli ultimi anni sono state integrate ma non ancora attuate, nei percorsi di certificazione HBFI (Baby Friendly Hospital Inventory) le Cure Amiche delle Madri. Questa difficoltà o resistenza al cambiamento, alla luce di tutte le conoscenze scientifiche evidence based in nostro possesso, delle raccomandazioni internazionali e delle LG nazionali, oltre che del gap esistente tra pratica clinica e prove di efficacia, ci riporta alla domanda iniziale, e cioè quale è la funzione di tali pratiche, del disciplinamento e del controllo del corpo delle donne? Della loro messa in dipendenza?

Maurizio Balistreri, filosofo, ha osservato: “in primo luogo quello che colpisce il silenzio delle filosofia sul tema della gravidanza e del parto, che rimangono a tutt'oggi ambiti inesplorati se li confrontiamo con l'attenzione che viene posta, non solo dalla filosofia ma dalla nostra cultura in generale, a questioni che riguardano altri momenti dell'esistenza. La riflessione bioetica - scrivono le femministe - e in genere le prospettive che difendono nuovi spazi di libertà e autonomia, sembrano fermarsi di fronte al tema del diritto alla libertà di scelta e autodeterminazione delle donne sul come e dove partorire e non sembrano sensibili alle rivendicazioni sempre più diffuse delle donne incinta. Il dibattito, molto acceso e diffuso, che riguarda l'interruzione di gravidanza e la fecondazione assistita, sembra fermarsi completamente sulla soglia della sala parto. Difficile non interpretare questa assenza di riflessione filosofica sul parto come espressione di una scarsa considerazione di quelle che sono le rivendicazioni delle donne. Anche descrivere il parto come un processo essenzialmente naturale, vicino alla natura, pone l'attenzione solo sull'aspetto biologico e fisico, rendendo così la nascita un evento più animale e meno umano. Anche la morte, che al contrario del parto è un tema sul quale la riflessione filosofica ha dato innumerevoli contributi, è un processo biologico, ma riflessione stessa sulla morte e lo scegliere per cosa morire, l'ha trasformata in un evento essenzialmente umano, non animale. È necessario riflettere sul perché lo status di atto umano non sia ancora stato riconosciuto al parto”. Secondo l’antropologa Annalisa Garzonio “il parto naturale non esiste e non è mai esistito. In nessuna parte del mondo. Invece di essere considerato un fatto puramente fisiologico gli andrebbero riconosciuti i caratteri di categoria culturale magistralmente costruita e manipolata per legittimare, di volta in volta, differenti forme di appropriazione del potere sui corpi delle partorienti e del corpo sociale più ampio. Queste le premesse concettuali di un approccio antropologico all’universo del sistema nascita. La mia ricerca sul campo ad Amed, Est Bali (Indonesia) mi ha concesso di assistere a numerose nascite in un contesto a medio bassa tecnologia biomedica nel quale le partorienti erano circondate esclusivamente da donne. Nonostante ciò i loro corpi venivano disciplinati ed addomesticati, rendendole in fase espulsiva completamente immobili, dalla presa ferrea delle suocere e delle sorelle dei loro mariti perché ritenute manchevoli del potere necessario ad espletare il loro parto. È sufficiente uscire dagli ospedali, essere circondate da donne, non fare uso delle moderne tecnologie biomediche e non avere a che fare con i ginecologi per poter parlare di liberazione della nascita o parto naturale? Pensiamoci insieme. Grazie a Freedom for Birth per avermi dato l’opportunità di cominciare a farlo con voi”. Valentina Gazzaniga, docente di Storia della Medicina all'Università La Sapienza di Roma, ha presentato un'interessante relazione, finalizzata a indagare le origini di questo tipo di violenza nella nostra cultura, in cui ha evidenziato come, nel mondo greco-romano, la visione del corpo femminile come di un corpo minoritario sia stata funzionale all'introduzione di un Pantheon maschile che andasse a sostituire quello femminile, che aveva caratterizzato le società gilaniche preesistenti (studiate da Maria Gimbutas). Gazzaniga ha affermato che: "tale visione del corpo femminile e dei processi riproduttivi era funzionale al controllo sociale delle donne ed alla strutturazione di una società patriarcale."











 

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