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Il caso di Flavia - di Marcella Delle Donne

Il caso di Flavia - di Marcella Delle Donne

La relatività valoriale dei comportamenti giovanili nella società eterodietta

Martedi, 07/05/2019 - Sottile, minuta, un viso infantile, capelli raccolti, Flavia si prepara indossando i guanti e la mascherina sul volto. Seduta sulla poltrona odontoiatrica, la guardo sorpresa, per l’età che dimostra, intorno ai 16, 17 anni. È una presenza nuova nello studio del dentista. Chiedo il suo nome ed esplicito la mia sorpresa per l’età che dimostra. A differenza del dentista e della segretaria dello studio, molto riservati e professionali, Flavia è loquace, mi dice di avere 23 anni, che ha fatto un corso per aiuto veterinaria, ma gli animali malati la fanno soffrire, così ora si esercita nell’attività infermieristica.
È molto carina nella sua disarmante ed apparente semplicità, così mi permetto di chiederle: «Ma ce l’hai un ragazzo?».
Non ancora avvezza all’ambiente asettico e formale dello studio, Flavia si confida: «Un ragazzo ce lo avevo, siamo stati insieme quattro anni, poi un giorno, all’improvviso, mi ha detto: <non ti amo più, e senza altra giustificazione non si è fatto più vedere. Vive qui, vicino allo studio e la cosa mi inquieta».
Poi continua, come un fiume in piena: «Ciò che non mi va è la ragazza con cui sta, piena di tatuaggi, sulle braccia, sul collo… mi ha lasciato per quella…!».Flavia mostra il risentimento e la rabbia non verso l’ex fidanzato, ma verso un’altra ragazza, quella che, precisa, ritiene non essere degna di lei.
Entra il dentista nel suo atteggiamento formale, distaccato. Flavia tace e si dà da fare per aiutare e imparare. Mentre il dottore opera, le spiega ciò che sta facendo e gli attrezzi che usa, di cui lei deve diventare esperta. Terminata la seduta mi congedo.
Il lavoro sulla mia bocca è lungo, così continuo le sedute dal dentista e la storia e la personalità di Flavia si esplicitano di volta in volta.
Nella seduta successiva, le chiedo per cortesia: «Coma va?». Di nuovo Flavia si confida, tirando fuori il sentimento di rabbia che l’angustia, e si sfoga: «Se lo vedo, non mi importa nulla di lui, ma quella sì, mi fa rabbia». Tace… poi riprende il discorso: «Lui è ebreo. Sua madre con me era molto gentile, le ero simpatica e andavamo insieme in giro a fare shopping… Me lo aveva detto: la religione si trasmette per linea materna; come a dirmi che la moglie di suo figlio doveva essere ebrea. Per questo io avrei capito se si fosse messo con un’ebrea, ma non con quella buzzicozza!»…«Buzzicozza?!» le chiedo, avendo capito la negatività insultante dell’aggettivo, ma non il suo significato letterale.
Flavia chiarisce: «E’ un termine che usiamo nel mio paese, io sono abruzzese, buzzicozza significa buzzurra, volgare, una cozza»…«Una cozza…?» e Flavia «Cioè ignorante, dura, insensibile, superficiale; insomma una busta. Capisce cosa voglio dire?,Una busta»…«Una busta?... busta in che senso?», esclamo.
Flavia si spiega: «La busta è quella dove si mettono i rifiuti organici, insomma la spazzatura».
Io mi taccio, entra il dentista che fa il suo lavoro, la seduta si conclude.
Fuori dallo studio, ritorno con la mente alla narrazione di Flavia e vò pensando ai 50 anni di storia delle donne, al lungo travaglio per diventar coscienti della condizione di subalternità al maschio, alle dolorose investigazioni per diventare consapevoli di una educazione culturale che per secoli ha posto le donne le une contro le altre nella competizione per la conquista dell’uomo.


Vò pensando al lungo interrogarsi, raccontarsi, mettere a nudo gli stereotipi e i modelli tramandati per secoli da madre in figlia. Mi viene in mente la rivista MS. Magazine sorta a New York nel ’72, osteggiata dall’opinione pubblica, e tutt’oggi ben viva.
Vò pensando al disvelamento, al fine, di una identità di genere nella quale sono state dissolte le sovrastrutture di un sentire antropologico, per cui Eva è stata concepita come femmina del maschio, colpevole e fedifraga.
Vò pensando al disvelamento di un’appartenenza solidale, ad un genere che unisce le donne nel riconoscimento reciproco, all’afflato di un sentire comune espresso dal concetto e dal sentimento di sorellanza.


Mentre detto queste riflessioni a Valeria, la mia giovane collaboratrice (21 ani) addetta al computer, lei sospende il suo lavoro e osserva: < prof., pe quello che so io,le donne sono competitive tra di loro e il discorso sulla sorellanza mi giunge nuovo e non solo a me>
L’osservazione di Valeria e la narrazione di Flavia mi riportano indietro di mezzo secolo. Ma cosa è successo, mi chiedo, per aver distrutto questa storia, questa consapevolezza?.
Passa una settimana e mi ritrovo sulla sedia odontoiatrica con Flavia accanto, che mi mette la salvietta, in attesa del dentista.
«Ora sei sola?» le chiedo, e Flavia «Ora sono con un ingegnere, ma non mi va tanto, è monotono, lavora e studia, e sì che ha solo 28 anni. Si figuri che alle dieci e mezza la sera già dorme!...non so quanto durerà… non è per me…».
Io rifletto e osservo: «Ma anche tu non potevi essere per l’altro, perché non sei ebrea». «Ma no!» risponde Flavia «perché io sono atea e avevamo intenzione di andare dal rabbino perché io diventassi ebrea». Stupita e turbata ammutolisco.
Entra il dentista, Flavia tace.
Fuori dallo studio cerco di capire l’atteggiamento di Flavia, il suo disinvolto diventare da atea a ebrea. Questa volta, più della prima, cerco di interpretare il modo di pensare, di essere di questa ragazza di 23 anni. La cosa disturbante non è l’intenzione di farsi ebrea, o cristiana, o buddhista, o musulmana, etc… ma la disinvoltura, l’aspetto dell’utile che è alla base della sua decisione. Mi viene in mente la considerazione di un grande sociologo, Emile Durkheim sul valore del sacro che, per l’uomo non è, né può essere trattato come un soggetto-oggetto del valore di scambio, come accade nella sfera economica.
È interessante a questo proposito l’esperienza di Durkheim, relativa ad un popolo di aborigeni, i quali, in una situazione di carestia assoluta, non si sono nutriti del pesce abbondante nel fiume, considerato il loro Totem, lasciandosi morire. Perché? Il pesce era il simbolo, l’entità assoluta che incarnava la loro essenza, l’identità più profonda, cioè il sacro. Ma, gli esempi possono essere infiniti. Come cristiana, penso ai cristiani della prim’ora perseguitati, che si sono fatti torturare e uccidere a migliaia, piuttosto che abiurare alla loro fede; per non parlare dei milioni di ebrei, in quanto ebrei, finiti nelle camere a gas.
Ancora una volta, dal dentista, mi accorgo che Flavia è nervosa, le chiedo il motivo del suo stato d’animo, e lei mi dice: «Mia sorella ha deciso di trasferirsi a Bologna col suo fidanzato, che lì ha trovato lavoro…», «è una bella cosa mi sembra», le dico «Si sposeranno e inizierà una nuova famiglia». Flavia reagisce con veemenza: «…Che? Mia sorella va con lui, ma non ci pensa proprio a sposarsi… e se poi non si trova bene? Rompe tutto e molla».
«Ma i tuoi genitori che ne pensano?», «Mio padre se ne sta per conto suo, con un’altra donna e mia madre una cosa ci dice, perentoria: non portatemi a casa un musulmano!».
Passano due mesi, torno dal dentista per un controllo. Flavia è sempre lì.
Mentre si prepara per assistere il medico mi informo sul tirocinio e del suo rapporto con l’ingegnere. Risposta: «Mmm….mmm, sono inguaiata, l’ingegnere ha un amico che mi intriga molto».
Entra il dentista, gli chiedo del percorso di apprendimento di Flavia come infermiera: «Bene, ha fatto molti progressi».
Per avere lumi sul comportamento di Flavia, mi confronto con mio figlio, raccontandogli tutto l’episodio e qui ricevo un’altra doccia fredda. «Mamma, ma che c’è di strano? È così, tu vivi fuori dal mondo, ma quello di Flavia è un comportamento normale. Se ti metti a scrivere di questo episodio, come un evento singolare, sei fuori strada. Al liceo, tra i miei compagni e compagne, comportamenti come quelli di Flavia sono la normalità, anche se dipende dalla situazione familiare e dal contesto sociale di appartenenza; il punto è che ci troviamo di fronte ad una società che è profondamente cambiata, rispetto a quella in cui sei cresciuta tu».
Sono confusa, mi sento inadeguata, fuori tempo. Ecco, fuori tempo. Ma quando e per quale ragione sono cambiate le modalità, i principi che ispirano i comportamenti condivisi e convissuti del vivere umano? Quando il percorso delle donne per diventare consapevoli si è dissolto?
Ritorno alla narrazione e al comportamento di Flavia.
È sicuro, che il suo modo di essere e di pensare risente del suo percorso di vita. Nata in un paese, tra le montagne d’Abruzzo, dove i ruoli e gli stereotipi culturali di genere sopravvivono; cresciuta in un quartiere periferico di Roma, anomico e anonimo, dove la famiglia si è trasferita; vissuta in un contesto familiare dove i legami e i valori genitoriali appaiono disgregati e disgreganti e i livelli culturali qualitativamente poveri, è comprensibile intendere come questi aspetti abbiano inciso sul modo di essere di Flavia.
I suoi vissuti hanno certo influito sul suo comportamento, ma non basta. Valgano le considerazioni di mio figlio sul comportamento delle sue compagne e compagni di liceo, i cui vissuti (famiglia e contesto sociale) in buona parte non corrispondono a quelli di Flavia.
A questo punto, io credo necessario allargare il discorso, scandagliare i presupposti su cui si regge la nostra società e che ne determinano obiettivi e valori. In breve. capire quali sono le coordinate di senso e di scopo, sulla base delle quali scaturiscono i comportamenti e i giudizi di valore della nostra società. Intanto bisogna valutare se è ancora corretto parlare della società nel senso di nostra. La società in cui viviamo non è esatto considerarla in senso circoscritto al Paese, alla città, alla nazione in cui viviamo e in senso più ampio all’Europa, perché oggi ci muoviamo all’interno di una società globale, i cui presupposti sono sottoposti allo tzunami di continue modificazioni che allargano via via, e spostano i confini culturali, sollecitati dall’economia mondo e dai sistemi di comunicazione globali e universalizzanti, cioè accessibili a tutti.
Se noi consideriamo i presupposti della società di cinquanta, sessanta anni fa, allora era ancora significativo parlare della nostra società. Allora era ancora possibile riconoscersi in un sistema di valori condivisi e convissuti, quali coordinate di senso e di scopo della comunità di appartenenza, benché già si avvertivano i sommovimenti del cambiamento epocale prossimo, venturo.




Oggi siamo all’interno del cambiamento economico-tecnologico, che ha determinato il passaggio dalla frontiera della produzione alla frontiera del consumo. Passaggio che ha comportato un altro cambiamento, il cambiamento del carattere dell’uomo, da autodiretto a eterodiretto (D.Riesman, La folla solitaria).
L’uomo autodiretto, dotato di ragione, è un soggetto in grado di autodeterminarsi attraverso la categoria fondamentale rappresentata dal lavoro, cui corrisponde sul piano del sociale il prestigio che dal lavoro discende in una società dove è fondamentale ciò che vale e dura nel tempo. Non è a caso che il primo articolo della nostra Costituzione sancisce: «L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro».



Il cambiamento dell’uomo da autodiretto ad eterodiretto, sottintende il passaggio dalla produzione al consumo ed è espresso dal sistema economico basato sulla obsolescenza prestabilita, che trasforma l’uomo produttore in soggetto-oggetto consumatore, con gli annessi sistemi di informazione mediatica.
L’obsolescenza prestabilita determina la durata a-priori di una merce, la quale viene pubblicizzata attraverso messaggi valoriali, da una pubblicità sempre più capillare nella sua pervasione-persuasione ossessiva, subliminale. Il prodotto viene pubblicizzato, come straordinario, perfetto, qualitativamente superiore, soprattutto in grado di accentuare il prestigio e il potere sociale di chi lo possiede.
Poiché l’obiettivo dell’obsolescenza prestabilita è quello di produrre e accelerare il consumo, ogni oggetto posto sul mercato viene presentato come dotato di un valore assoluto, per cui si determina il bisogno all’acquisto e quindi la propensione al consumo. Nel momento, però, in cui viene posto sul mercato, l’oggetto ha in sé un tempo prestabilito di durata, dopo di che il valore dell’oggetto del consumo si dissolve, via via che vengono posti in essere nuovi stimoli attraverso il bombardamento mediatico, stimoli che inducono all’acquisto del nuovo oggetto di consumo. Questo viene presentato come qualitativamente superiore al precedente, attraverso l’obsolescenza prestabilita che via via introduce nuovi oggetti di consumo.



















La conseguenza della mutazione continua del valore assoluto di ogni oggetto di consumo, in valore relativo, incide nel nostro modo di intendere la realtà e trasforma nella nostra mente la percezione della durata e della validità di ogni valore. Ciò significa il cambiamento del nostro sistema delle coordinate di senso e di scopo.
Rispetto alla concezione di ciò che vale e dura nel tempo, va sostituendosi la relatività di ogni acquisizione, la precarietà dei presupposti valoriali che ci guidano.
Ciò che conta in una società eterodiretta, è rimanere costantemente a contatto con l’informazione mediatica per non apparire un dissociato, un’informazione che orienta verso mete sempre diverse e sempre più lontane. La necessità ossessiva di accelerare il consumo, attraverso una martellante informazione mediatica, televisione, internet, ma anche la carta stampata, che invadono la rete, interrompe la visione e la concentrazione e sposta l’attenzione verso messaggi altri che si susseguono. L’alternanza dei messaggi, tra quelli ricercati e quelli invasivi, comporta una fluttuazione dell’interesse e una equivalenza valoriale tra ciò che si sta cercando e ciò che viene imposto senza soluzione di continuità. Come aveva già osservato Georg Simmel su Metropoli e personalità, (1996)si viene a formare una coscienza e una conoscenza dove “tutto galleggia con egual peso specifico”.

Di più e molto più grave, la dimensione virtuale della visione mediatica (vedi la dipendenza, soprattutto dei millennials dai cellulari) determina il distacco partecipativo, cioè viene meno il coinvolgimento emotivo e la riflessione cogente di ciò che stiamo vedendo e assistendo.
Da questo punto di vista le immagini dei video che appaiono in rete: di crudeltà efferata, di sessualità distorta eccessiva e violenza, di competizione senza esclusione di colpi (in una parola disumana), annullano il coinvolgimento dell’intelligenza emotiva, impedendo nello stesso tempo una riflessione intellettiva sulle coordinate di senso e di scopo di ciò che viene mediaticamente propinato. Il distacco empatico, cioè umano, tra le persone può sollecitare comportamenti emulativi vissuti come normali.
Si viene così a formare quella che Bauman chiama la società liquida, dove: «Il passaggio dalla modernità solida a quella fluida indica che tutte le certezze su cui si è costruita la modernizzazione fino ad oggi, stanno venendo meno, sostituite da una fase di sfrenata deregolamentazione e flessibilizzazione dei rapporti sociali; non sorprende, allora, che questa nuova fase veda il centro del suo sviluppo proprio l’individuo con la sua contraddizione principale» (Z. Bauman, La modernità liquida, 2011), per cui una cosa è vera, come il suo contrario (non nascono di qui le fake news?).
Tutto appare precario e vulnerabile per questo impulso al consumo degli oggetti, che porta in sé la relatività del valore degli stessi, e fa apparire, di conseguenza, ogni condizione, ogni valore, come precario, in vista di qualcosa verso cui tendiamo, ma che ci appare fittizio e/o irraggiungibile.
Una condizione psicologica che ci accomuna nel disvalore di ogni principio valido in sé e che ci omologa nella corsa sempre più competitiva, verso un’inafferrabile meta che porta ad un individualismo anarcoide e isolazionista.
Una relatività e una precarietà che, tra l’altro, accentua il disvalore delle identità altre con rigurgiti di razzismo. Vedi il rifiuto del musulmano da parte della madre di Flavia. Ecco, siamo tornati ai comportamenti di Flavia, alla disinvoltura di come si trasforma da atea a ebrea, alla sua rabbia nella competizione con la buzzicozza, al disvalore con cui descrive e valuta «l’ingegnere che lavora e studia» e, «figuriamoci… va a dormire alle 10.30».; alla fluttuazione dei suoi stati emotivi nei coinvolgimenti amorosi.
Nell’osservare i comportamenti di Flavia ho intravisto, tuttavia, un cardine che la sostiene, un timone che l’orienta: la volontà di imparare per rendersi autonoma, come quando ascolta attenta gli insegnamenti del dentista che opera; come quando appunta e disegna su un quadernetto, a fine seduta, i nomi degli strumenti che di volta in volta impara a conoscere. Questo atteggiamento potrebbe essere l’inizio di un percorso per l’acquisizione di una consapevolezza di sé e del mondo che la circonda.


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