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Il pensiero autonomo della sinistra 'indipendente'

Il pensiero autonomo della sinistra 'indipendente'

Di Giambattista Scirè, 'Gli indipendenti di sinistra' (Ediesse) è 'una storia italiana dal sessantotto a Tangentopoli'

Mercoledi, 20/11/2013 - Sono in ritardo con la presentazione di un libro che da quando è uscito mi sta a cuore. Se ho rinviato di sollecitare gli amici a leggerlo, nonostante la stima e l'amicizia per l'autore, è forse perché mi riguarda da vicino. "Gli Indipendenti di sinistra" di Giambattista Scirè (ed. Ediesse) è un libro interessante proprio in questi nostri anni, in cui il cambiamento epocale che si sta verificando nella storia mondiale, ha ripercussioni politiche particolari in tutto il mondo occidentale e in Europa, ma, specificamente, in Italia. Nessuna trasformazione avviene senza preavviso ma sembra un dato ricorrente che i politici manchino di antenne cognitive capaci di captare tempestivamente i fenomeni. La disattenzione sui segnali, come quelli evidenziati in questo saggio, ci trova meno innocenti di fronte agli "imprevisti" di dinamiche evolutive che abbiamo lasciato scivolare via dall'orizzonte del possibile.

Il cosiddetto, mitizzato e smitizzato, "Sessantotto" era pieno di segnali. Alcuni furono captati, altri intesi e presto soffocati sia da chi aveva interesse a reprimerli, sia da chi non si accorgeva delle potenzialità positive contenute in forme che apparivano "strane", ma anticipavano esigenze indifferibili. I giovani di oggi non si possono rendere conto di come negli anni Sessanta del secolo scorso fosse pesante, per esempio, la scuola "del buon tempo andato": all'inizio di carriera per sindacalizzarmi - non esistendo ancora i confederali Cgil, Cisl, Uil di categoria - mi iscrissi al Sindacato Presidi e Professori di ruolo A: era la corporazione....

Ma debbo dire che sono stata chiamata a riprendere il libro sugli "indipendenti di sinistra" dalla riedizione di una vecchia intervista di Rossana Rossanda a J.P. Sartre, registrata proprio nel 1968: dopo tanti anni, l'attualità non era scontata. Se già Sartre riconosceva il conflitto fra l'esistenza necessaria della forma-partito e la sua inevitabile chiusura nel divenire istituzionale e burocratico, mi domando come sia successo che gli stessi problemi siano stati - e continuino ad essere - rimossi da generazioni di politici che non si accorgono (i più giovani sono totalmente ignari) di dipendere da vecchie appartenenze a vecchie logiche (Marx era morto nel 1883 anche nel 1968, quando - chissà perché - avevamo scoperto, prima del Capitale, gli scritti giovanili) e che sono ormai diventati incapaci di comunicare con quella "società civile" che quarant'anni prima non chiamavamo ancora così. Eppure il Pci, che aveva dirigenti molto più attenti a curare anche ciò che gli piaceva meno, diede spazio ad un gruppo di rappresentanti non comunisti portatori di istanze serie ai fini di quella trasformazione che, ai tempi di Berlinguer, non poteva più essere ideologica. Ho fatto parte di quella Sinistra Indipendente che nei suoi membri, almeno per quanto mi riguarda, riteneva che solo rafforzando una sinistra di pensiero autonomo e insieme di iniziativa istituzionale si poteva risolvere quell'eccezione al costituzionalismo comparato costituito dall'Italia che, sola in Europa occidentale, in decenni di libera repubblica non aveva avuto mai alternanza di governo. Il patto del 1963 aveva visto il partito socialista entrare nell'area di governo, ma subalterno (anche se molte furono le sostanziali - e dimenticate - riforme di quegli anni) all'ormai istituzionalmente radicato potere democristiano. E' ben vero che il Pci portava gli operai in piazza e diceva "no" perfino allo statuto dei lavoratori pur di fare opposizione; ma era impossibile non accorgersi che "la forma-partito non era per sempre". Infatti - non so le ragioni degli altri indipendenti - ancor oggi ritengo che, se si è d'accordo con il 60/70 % delle scelte di un partito, ci si può anche iscrivere, ma sapendo che la forma-partito non può comprendere l'universo della politica (pensiamo all'estraneità delle donne). La politica, infatti, è per definizione più stretta dell'orizzonte culturale in cui si iscrivono le aspirazioni pazientemente evolutive di quelle che erano "le masse" portate alle lotte e che oggi chiamiamo "gente" che rendiamo delusa e depressa per aver fallito promesse che non tenevano conto della tradizione moderata degli italiani da sempre privi, secondo Leopardi, di senso morale. Quando cominciai a frequentare la sezione scuola del mio quartiere, il concetto che ne aveva il rappresentante del partito era, come per me, "dal nido all'educazione permanente". Altri tempi? Certo, ma uguali, anzi con ancor più chiare le esigenze di un mondo in trasformazione, comprese le innovazioni allora impensabili.

Critico sempre i commentatori che illustrando l'opera altrui parlano di sé; ma in questo caso l'ho fatto di proposito: al valore di quell' "indipendenza" e a quelle idee tengo ancora molto. E, ben lieta che un giovane studioso si sia occupato di un frammento di storia contemporanea destinato alla damnatio memoriae (anche da parte degli eredi del Pci, che non hanno mai capito quanto avrebbero potuto raccogliere di quella esperienza feconda), invito lettori dimentichi di antiche vicende ma ancora curiosi a leggere il saggio di Giambattista Scirè. Una chicca, lo dicono anche molti amici che non sono come me parte in causa.



Giambattista Scirè

GLI INDIPENDENTI DI SINISTRA

Una storia italiana dal sessantotto a Tangentopoli

Ediesse, 2012

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