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Il luogo della complessità

Il luogo della complessità

VIVALASCUOLA/4 - Giovani con meno capacità di attenzione e insegnanti che non sono più punto di riferimento della società. La testimonianza di Laura De Mattheis, insegnante di scienze, e il punto di vista di chi siede tra i banchi

Angelucci Nadia Mercoledi, 03/08/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2016

“Prima di laurearmi mi fu proposta una supplenza e la relazione con i ragazzi mi ha entusiasmato.” Laura De Mattheis insegna Scienze dal 1989, da circa dieci anni in un Istituto Tecnico Industriale e Liceo Scientifico delle Scienze Applicate. Quello che emerge dalla lunga chiacchierata con lei è l’entusiasmo e la passione unite ad una visione lucida della complessità della scuola che De Mattheis conosce molto bene sia sul versante dell’insegnamento frontale che su quello degli obblighi burocratici, avendo svolto a lungo il ruolo di collaboratrice dell’Ufficio di presidenza.

“La grande varietà di situazioni di cui noi docenti siamo il terminale è sicuramente il tratto più complicato, e affascinante, che ci troviamo ad affrontare. Partiamo dall’ubicazione del comprensorio scolastico in cui lavoro: la sede centrale è Labaro Prima Porta, periferia nord di Roma, e la succursale è a Ponte Milvio, quasi centro della città. Abbiamo, come si può immaginare, due utenze molto diverse, circa 800 studenti e classi molto numerose. Già questo dovrebbe raccontare la grande varietà di situazioni che ci troviamo a dover sostenere a fronte di risorse non sempre adeguate a cui suppliamo con l’impegno personale e la buona volontà. E non è solo un problema di provenienza degli alunni. La scuola deve garantire un’attenzione individualizzata a persone che hanno esigenze e bisogni differenti. Parlo di ragazzi e ragazze con disabilità, di studenti che hanno DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento), o BES (Bisogni Educativi Speciali). Sono ragazzi che hanno bisogno di strumenti compensativi, di una didattica ad hoc, e in alcuni casi di insegnanti di sostegno. Tutto questo, che è un diritto, necessita risorse e programmazione, oltre che preparazione, specifiche. Inoltre io ritengo che una didattica personalizzata andrebbe costruita per ogni studente. La scuola dovrebbe essere in grado di pensare a percorsi specifici per ogni ragazzo e ragazza. Ma i mezzi che abbiamo sono minimi.



Come è questa nuova generazione di giovani che ti trovi davanti?


È facile dire che adesso i ragazzi sono meno attenti e studiosi; in parte è così anche se il mio è un osservatorio particolare, di periferia. Ci sono ragazzi a cui viene data un’opportunità di migliorare, a volte la sanno sfruttare e a volte no. Quello che posso dire è che c’è una minore capacità di attenzione. All’esterno della scuola hanno molte sollecitazioni ma sono istanze povere di contenuti e la scuola deve riempire questi vuoti a cui spesso le famiglie non rispondono. Poi ci sono i ragazzi stranieri, le nuove generazioni, che sono abbastanza consapevoli del fatto che scuola sia una grande opportunità per loro, sia dal punto di vista dell’approfondimento che per la possibilità di creare una rete sociale. Sono ragazzi che spesso vengono da situazioni di difficoltà e vanno sostenuti. Anche se la mia impressione è che ci sia un disagio diffuso. Parlando con gli studenti, con le famiglie, vengo a conoscenza di tante situazioni complicate e mi chiedo come faccia un giovane di 16 anni a sostenere un carico così pesante. La scuola dovrebbe essere anche un luogo di conforto, mi piace l’idea che vengano qui e stiano bene. Quando alcuni colleghi tendono a sottolineare che uno studente non ha studiato credo che dovremmo farci la domanda del perché non ha studiato, cosa ho fatto io perché lui potesse studiare e scegliere di impegnarsi.



E i docenti? Come stanno?

Devo dire che in grande maggioranza c’è motivazione all’insegnamento e spirito di collaborazione. Dato che siamo sottopagati, e sommersi da obblighi burocratici e da grande complessità, non sempre le novità vengono accolte. Sentiamo forte la nostra perdita di significato sociale, non siamo più riconosciuti come una categoria di persone essenziali per la società, né dalle istituzioni né dalle famiglie. Una carta vincente della scuola è la cooperazione tra colleghi, l’interdisciplinarietà, la creazione di uno stile e di una modalità di lavoro comune. Una dicotomia, molto forte e poco risolvibile se non si avanza con un pensiero più ampio e condiviso, è tra le sollecitazioni che arrivano a fare una didattica più accattivante, che usi la tecnologia e renda protagonisti i ragazzi, e ciò che arriva dal MIUR che è molto più statico e che però vincola nel momento delle valutazioni e degli esami.





A SCUOLA PER IMPARARE A STARE INSIEME


Gabriele, 16 anni, liceo scientifico Joyce di Ariccia, ha deciso di passare un anno all’estero

Volevo vedere con i miei occhi come funziona un sistema scolastico diverso dal nostro; avevo scelto di fare un’esperienza in un paese che avesse un’impostazione più anglosassone ma alla fine andrò in Serbia che ha una struttura simile alla nostra. Volevo anche capire quanto fosse vero che la scuola in altri paesi è vista come occasione di crescita e riscatto sociale, cosa che qui in Italia non accade da tanti anni ormai. Se mi guardo intorno vedo che molti ragazzi scelgono un corso di studi senza convinzione e poi non sono conseguenti nello studio e nell’impegno e a volte anche i professori lasciano andare le cose. Penso che la scuola serva, non solo come luogo di trasmissione di nozioni ma anche per imparare a stare insieme agli altri. Nella scuola dei miei sogni mi piacerebbe che ci fosse più attenzione alla pratica, ai laboratori, e più partecipazione degli studenti nelle decisioni e nella valutazione di come i saperi vengono trasmessi.



TECNOLOGIE PER TRASMETTERE I SAPERI

Susanna, 18 anni, liceo classico Tasso del centro di Roma

Ho avuto l’opportunità di frequentare per sei mesi una scuola in Argentina, a Buenos Aires. La differenza più grande è stata quella di percepire meno distanza tra i professori e gli studenti, forse anche per la giovane età dei docenti. Le lezioni erano più partecipative, si richiedeva sempre il coinvolgimento degli studenti anche nella pianificazione, e il legame all’attualità era forte. La scuola serve ma dovrebbe essere usata meglio per dare delle opportunità a tutti a partire dall’uso delle tecnologie che è legato anche a come viene trasmesso il sapere. La didattica è molto unidirezionale e non mira a sollecitare lo studente, né a stimolare un pensiero critico. Nella mia scuola ideale ci dovrebbero essere meno ore di studio, soprattutto a casa, e più possibilità di aprirsi ad altre realtà culturali con attività esterne. Ci dovrebbe essere più approfondimento verso temi legati all’attualità e più spazi comunitari anche per lo scambio tra gli stessi studenti.



DOCENTI SENZA AMORE PER L’INSEGNAMENTO

Meggy 20 anni, ha appena finito il liceo classico Pilo Albertelli di Roma

La scuola è stata utile per me, non solo dal punto di vista della mia preparazione. Ho perso un anno in terza liceo. È stata una brutta esperienza che però mi ha fatto crescere. All’inizio l’ho vissuta come un’ingiustizia ma ho affrontato gli anni successivi cercando di dimostrare che avevano sbagliato. Quello che ho notato è che c’è una stigmatizzazione verso chi viene bocciato e raramente viene data una seconda opportunità. Se non rientri in un certo standard non va bene; e questo è palese se pensi che gli studenti vengono giudicati solo attraverso un numero. Spesso non vengono prese in considerazione le caratteristiche individuali e le virtù di ciascuno. Non viene valutata la capacità di relazionarsi a livello interpersonale e la capacità di lavorare in squadra; siamo spinti alla competizione individuale e non alla solidarietà e all’interazione con gli altri laddove ognuno potrebbe dare il meglio di sé per un progetto comune. In fondo la scuola è una riproduzione del mondo esterno. Questo accade verso di noi e anche verso i professori. Mi sembra che ci siano docenti che hanno amore per quello che insegnano e che siano capaci di far innamorare gli studenti ma anche loro sono fagocitati da chi ha un approccio più accademico; è come se questa loro caratteristica, che dovrebbe essere centrale in una relazione educativa, passi sempre in secondo piano rispetto ad altri obblighi burocratici.

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